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Ho sempre amato Le beau mariage, Il bel matrimonio, di Éric Rohmer. Non è tra i film più considerati del francese, potremmo persino definirlo minore se non fosse che, ehi, è pur sempre Rohmer, mica uno di quegli sproloquianti cretini di Netflix che riducono il cinema alla sua parodia, lo storytelling.
Una buona parte del fascino del film dipende dalla semplicità apparente della trama, la sua natura paradossale condotta con grazia tipicamente rohmeriana. La venticinquenne Sabine, studentessa di storia dell’arte, stanca di relazioni saltuarie, decide di sposarsi. Con chi? Un fidanzato non ce l’ha, ma ecco, provvidenziale, il party di matrimonio del fratello della sua migliore amica, Clarisse. Qui conosce il legnoso cugino Edmond, avvocato ambizioso, buone maniere, sorriso affascinante. Scatta la scintilla. Sabine comincia a perseguitare il povero Edmond che, scopriremo, non ne vuole sapere.
Uscito nel 1982, il film appartiene al ciclo delle commedie e proverbi, in cui lo scettro di capolavoro spetta a Pauline à la plage. L’esergo è preso da La Fontaine: «Quel esprit ne bat la campagne? Qui ne fait châteaux en Espagne?». Chi non fa castelli in Spagna? Sabine studia a Parigi, ma è originaria di Le Mans, dove vive con la madre vedova e la sorella. Ha la sua camera decorosa con un brutto poster alla parete, lavora in un negozio di antiquariato, all’inizio del film intrattiene una relazione con un uomo sposato, il pittore Simon, che molla perché in due non si può solo litigare e fare l’amore. Clarisse è una decoratrice, ha sposato un giovane medico. Borghese sazia ma non volgare, è perfettamente integrata nel proprio mondo. Sabine la invidia per questo e per il talento, ma di impegnarsi nell’artigianato non ha voglia. Disprezza il commercio, dice. Eppure, il sogno del matrimonio con Edmond evidenza l’ambizione di un salto di classe. La sfumatura pragmatica del carattere di Sabine è assai contraddittoria.
La decisione del matrimonio unisce due ambizioni. Una consapevole, fin troppo razionale e dunque bugiarda – la vita agiata, solida, niente sbattimenti, il marito che provvede a tutto e la moglie dedita all’ozio creativo; l’altra inconsapevole, più preziosa e sincera – la creazione.
La morale esibita da Sabine è ottocentesca, da Jane Austen (Emma è un ovvio riferimento letterario del film). È la madre a farglielo notare. L’idea del matrimonio senza oggetto, ovvero sposarsi per sposarsi, parodia i valori borghesi e trasforma il film in un estenuante tour de force di volontà, lo scontro tra una forza inarrestabile e un oggetto inamovibile. Sabine, ottusamente decisa a sposare Edmond, ed Edmond, che non ha nessuna intenzione di coniugarsi.
In un certo senso, Le beau mariage è una rapida e, nella sua disinvoltura, quasi surreale discesa nella follia. Cosa c’è di più folle di volersi legare per la vita a un uomo che non si conosce, che non c’è? Eppure, è il genere di follia che commettiamo tutti. Chi non fa castelli in Spagna, si chiedeva La Fontaine a proposito della sbadata Perrette, che pregusta mille ricchezze e proprio mentre gli pare quasi di averle attorno, inciampa e rovescia il prezioso vaso di latte che porta in testa. Sabine è interpretata da Béatrice Romand, la ninfetta del freudiano Il ginocchio di Claire. Lì seminava il dubbio nel già non saldissimo Jean-Claude Brialy, confessando poi di essere alla ricerca di un sostituto del padre. Qui Rohmer si vendica mettendole in bocca fantasie conservatrici sogno di ogni boomer, fantasie – è questo che assolve il regista davanti al tribunale progressista – che stonano palesemente col suo viso capriccioso, le mossette di bambina insolente, il libertinaggio di cui è capace con Simon.
La determinazione è il pennello con cui l’aspirante artista Sabine cerca di affrescare la realtà, piegarla alla sua fantasia romantica. La ragionevolezza e i confini di classe non sembrano un problema. L’opposizione tra i due personaggi principali è anche l’opposizione tra due attori. Edmond è interpretato dal rodato André Dussollier. Nella sua biografia dedicata a Rohmer, Antoine de Baecque lo descrive come un professionista meticoloso. Racconta come si aggirasse sul set con un certo anticipo per immedesimarsi meglio nella parte. Sebbene non fosse convinto del monologo finale, in cui Edmond esplicita il suo rifiuto a Sabine paragonandola a una bella casa di campagna quando si ha voglia di vivere in città, la sua interpretazione fu alla lettera. Romand, invece, era il tipo della ribelle, insofferente alla parte costrittiva del lavoro. Rohmer la scelse per questo. La trovava moderna, inimitabile. Cercava «una giovane donna che incarna la propria esperienza vissuta recitando in contrapposizione a un attore teatrale esperto» (de Baecque).
L’attenzione per certi stadi infantili, per le fasi di passaggio della vita, di irresolutezza è tipica di Rohmer. Così il suo interesse per i dilettanti, i principianti, nel film rappresentati dalla brillante ma innocua Clarisse. Ciò che rende sconcertante Le beau mariage è la ferma, allucinatoria pretesa del più caotico desiderio di incarnarsi nella realtà stravolgendola dalle fondamenta, e la capacità di Rohmer di tenere tutto in piedi, malgrado il flusso torrenziale di dialoghi, le contraddizioni, i capricci del destino. In Le beau mariage il caso, come sempre nei film del francese, gioca un ruolo cruciale, sollecitato dalle strategie invisibili della manipolazione e dell’inconscio. Sabine matura la decisione di sposarsi nel momento in cui una telefonata del figlioletto di Simon interrompe il suo amplesso con l’amante. Il matrimonio del fratello dell’amica sembra rappresentare un’occasione perfetta. L’incontro con Edmond lo combina Clarisse, che sottolinea al cugino come Sabine sia il suo tipo e, più tardi, incoraggia Sabine testimoniandole di aver assistito a un colpo di fulmine. Durante il party, tra i due è sembrato nascere un interesse reciproco, ma Edmond è stato richiamato a Parigi da una telefonata di lavoro. L’incontro successivo, a pranzo, è un capolavoro di fraintendimento e auto-sabotaggio. Tra Sabine ed Edmond misuriamo la stessa distanza culturale ed emotiva che c’è tra Le Mans e Parigi, i due poli entro cui oscillano i desideri e le ambizioni di Sabine. Lo sguardo insistente della ragazza tradisce il suo interesse eccessivo, fuori luogo. Il donnaiolo Edmond fiuta il pericolo e, da lì, comincia a ritirarsi, senza troppo successo. L’apice della crudeltà di Rohmer è la festa di compleanno di Sabine, a cui l’avvocato partecipa in ritardo, controvoglia, palesemente a disagio in un ambiente sociale così diverso dal milieu altoborghese a cui è abituato, ma alla fine concedendo quel gesto di tenerezza che Sabine chiedeva, a cui la ragazza, disperata, si aggrappa come a un segno di positiva predestinazione per dare nuova propulsione a una volontà per la prima volta seriamente vacillante.
Ma quella di Sabine è, in fondo, anche una recita, a cui la protagonista si abbandona compiaciuta in occasione del confronto definitivo con Edmond, sciorinando un corredo libresco di mossette e sdegno da dama offesa. Sul treno di ritorno verso Le Mans la vediamo sorridere. Sempre sul treno, nel finale del film, scambierà occhiate con un giovane e scapigliato studente. La morale è conservatrice o no? Rohmer certo non è un rivoluzionario, e la chiusura potrebbe significare: stai al tuo posto, accontentati e sarai felice. È possibile, però, intendere l’ammonizione anche nel verso di una saggezza spassionata, apolitica, da grand vieux (all’epoca del film Rohmer aveva sessantadue anni): lascia perdere il grande salto, vivi le tue contraddizioni pienamente e sarai felice. Del resto, qui ne fait châteaux en Espagne?
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