Un romanzetto estivo. Èric Rohmer, “Il ginocchio di Claire” (1970)

Una scena tratta dal film "Il ginocchio di Claire", "Le genou de Claire" (1970) di Eric Rohmer. Nel frame, il protagonista Jerome osserva il ginocchio di Claire in cima a una scala.

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Quinto capitolo dei Racconti morali, Le genou de Claire, Il ginocchio di Claire (1970), è un piccolo, delizioso saggio sulla seduzione e la manipolazione. Un grande classico dei film di Éric Rohmer è il personaggio intrigante. Solitamente una donna, in omaggio alla Emma di Jane Austen, l’intrigante scatena il gioco delle coppie. Nel Ginocchio di Claire la manipolatrice è anche una scrittrice, Aurora, che trasforma l’amico Jérôme, diplomatico in carriera e donnaiolo impenitente, di ritorno nei luoghi dell’infanzia per vendere la casa di famiglia, nella propria cavia. Prossimo al matrimonio, Jérôme finisce impigliato nel romanzetto salace che l’amica, in cerca di ispirazione, imbastisce. La figlia della sua padrona di casa, gli rivela Aurora, è segretamente innamorata di lui. Jérôme, però, presto si scopre attratto dalla sorella di lei, Claire.

La finzione si confonde con la realtà, la persona con il personaggio, in un gioco vertiginoso ma sottile, che chiama in causa il cinéma vérité e l’ambizione etnologica di Rohmer, l’osservazione insieme partecipe e distaccata, mai giudicante. Raccontano le cronache dell’epoca che mentre il regista si agitava intorno alla raffinata equazione della propria messa in scena, il resto del set somigliava a un campo estivo. Merito del cast giovane, cui il Rohmer concesse, come spesso gli capitava, libertà di improvvisare. Con l’eccezione del navigato Jean-Claude Brialy / Jérôme, che aveva esordito nel ’56 con Eliana e gli uomini di Jean Renoir e La sonate à Kreutzer dello stesso Rohmer, il resto della truppa era composta da non attori o mezzi attori o apprendisti tali. Ci sono la classica Béatrice Romand (Laura), presente poi in altri film di Rohmer (tra questi, Il bel matrimonio e Il raggio verde), gli esordienti Laurence de Monaghan (Claire) e Gèrard Falconetti (Gilles, il fidanzato di Claire), e soprattutto Fabrice Luchini, ex parrucchiere, alle spalle una particina in un film di Labro l’anno prima, qui spasimante di Laura e oggi veterano del cinema francese. Ciliegina sulla torta, Aurora è Aurora Cornu, una vera scrittrice. La mise an abyme è servita, ma la vertigine che ne consegue, come sempre in Rohmer, agisce un pelo sotto il conscio, per cui lo spettatore guarda, rimane affascinato, annusa un mistero ma non lo comprende – a meno che, ovviamente, non torni sul luogo del delitto. Tutt’altro che imponente, anzi intimo e “minimo”, il cinema di Rohmer è un oggetto sfingetico che si presta a continue re-visioni.

Ma se allo spettatore è consentito dubitare di quanto si svolge davanti ai suoi occhi, e rimediare al giudizio affrettato, ai personaggi no, ogni ripensamento è fuori dalla loro portata. L’autoinganno è il grande tema del film, annunciato in modo programmatico da un affresco nella casa d’infanzia di Jérôme. Don Chisciotte e Sancho, in groppa a un cavallo di legno, hanno gli occhi bendati. Un mantice e un torcia danno loro l’illusione di star volando vicino al sole. Il riferimento non è casuale. Rohmer era uno studioso dell’opera di Cervantès, a cui, nel 1965, aveva dedicato un omonimo documentario televisivo. Del resto, il regista presentava i personaggi dei suoi racconti morali come dei Don Chisciotte che «si prendono per personaggi da romanzo, ma forse senza romanzo». «Hanno gli occhi bendati», dice Aurora commentando l’affresco. «Gli eroi li hanno sempre così. Se no non farebbero più nulla, la storia finirebbe. Non è grave, perché tutti abbiamo bende sugli occhi». Tutti, tranne gli artisti, aggiunge Jérôme, e Aurora non può che concordare: quando scrivo, dice, gli occhi devo tenerli ben aperti. Il mantice non lo muove l’artista, spiega, ma il desiderio stesso dell’eroe. I personaggi di Rohmer sfoderano una consapevolezza di sé che si rivela, alla fine, fragile e parziale. L’autoinganno di Jérôme è credere di poter sposare una donna che in fondo non ama semplicemente perché il destino sembra mettergliela sempre davanti. Il matrimonio rischia di vacillare non tanto per la corte della deliziosa civetta Romand, quanto per Claire. È curioso che il personaggio-chiave del film si manifesti a ben quarantacinque minuti dall’inizio. Il ginocchio di lei, prima che l’epicentro di una fissazione feticistica o il trigger di un conflitto morale, è anzitutto un luogo simbolico, la via per spezzare il turbamento di un desiderio «puro», «senza scopo», e insieme rompere l’incantesimo dell’affabulatrice Aurora, che ha trasformato Jérôme, complice inconsapevole, nel suo burattino.

Jérôme è un seduttore, un uomo pigro e moralmente inconsistente. Alcuni personaggi di Rohmer sono agiti (vedi Jeanne in Racconto di primavera). Soffrono di fatalismo, che è un modo romantico per chiamare la passività. In un dialogo con Aurora, Jérôme rivela di non aver mai tentato approcci con donne che non sentisse già disposte. Tutte le sue conquiste, in un certo senso, sono sempre state già scritte. Nel film lo ascoltiamo giurare e spergiurare fedeltà alla futura moglie, ma lo vediamo cercare il contatto con ogni donna (bacia Laura un po’ troppo appassionatamente, la ragazzina scappa). Forse è per questo che la promessa sposa, presenza-fantasma in forma di ritratto fotografico, ha un volto così duro, lo sguardo è congelato in una specie di perenne riprovazione. Claire, dal canto suo, tratta Jérôme con indifferenza, anzi non lo tratta affatto. Il suo sguardo si accende di passione solo per il fidanzato. Jérôme è intimorito dalla bellezza della ragazza, non può conquistarla. L’incertezza sposta il focus dall’organo sessuale al ginocchio, un surrogato. Il senso di inferiorità del feticista direziona in periferia l’investimento libidico. Non potendo averla, non osando, Jerome deve “costeggiare” Claire. La curva del ginocchio è meno compromettente del foro di un orecchio – stando alle cronache, era quella la prima scelta di Rohmer.

Fatto sta che quando Jérôme e Claire, fortunosamente, rimangono soli, lui non resiste alla tentazione. Le rivela il presunto tradimento del nerboruto Gilles, con cui qualche scena prima aveva ingaggiato una specie di confronto edipico. Claire scoppia in lacrime, lui la consola carezzandole la preziosa estremità. Il manipolato diventa, a sua volta, manipolatore, ma la coscienza è salva. Jérôme è intimamente convinto di aver compiuto una buona azione, mettere in guardia Claire da un poco di buono. Scopriremo, però, che l’incontro di Gilles con una vecchia fiamma, a cui casualmente Jérôme aveva assistito, era del tutto innocente. Sul finale, Gilles e Claire si riconciliano. Laura supera la cotta per Jérôme, avendone constatato l’insipienza. Jérôme si è liberato dall’ossessione di Claire, può viaggiare verso il matrimonio svedese compiaciuto della propria forza morale, mentre Aurora, da cui tutto è partito e che presiede allo scioglimento dell’intreccio come una sacerdotessa (una «maga»), ha il suo romanzo.

Note ai margini. La disinvoltura con cui Rohmer tratta il tema dell’attrazione di Jérôme per due minorenni appartiene a un’altra epoca. Oggi, la carezza sul ginocchio di Claire e il bacio a Laura si caricano di sovratoni cringe, ma non è con la lente della moralità che si giudica un film, tantomeno decontestualizzando. Impeccabile, come sempre, la sceneggiatura. Meravigliosi gli ambienti, l’Alta Savoia, i paraggi del lago d’Annecy, le case piene di libri. Gli alberi di ciliegio sono una citazione dell’amato Rousseau.

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