L’enigma del soggetto morale. Èric Rohmer, “Racconto di primavera” (1990)

Una scena di "Racconto di primavera" di Eric Rohmer

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Con Racconto di primavera (1990), Èric Rohmer ci consegna un’altra figura di sradicata sentimentale. Come già Sabine in Il bel matrimonio e soprattutto Louise in Le notti della luna piena, anche Jeanne si destreggia tra due case. In una vive con Mathieu, circondata da un disordine che non le dà tregua; nell’altra, dove vorrebbe abitare causa l’assenza del compagno, soggiorna temporaneamente la cugina, Gaëlle, in vista di un concorso. Questa oscillazione è, prima che contingente, esistenziale. Le due case incarnano altrettante ipotesi, possibilità di vita. Da un lato, la coppia, la vita produttiva, la felicità così come intesa dal Grande Altro sociale; dall’altro, la scelta istintiva di una radicale solitudine.

Racconto di primavera inaugura l’ultimo ciclo rohmeriano, quello delle quattro stagioni. Il film presenta notevoli affinità con alcune pellicole del ciclo precedente, le commedie e i proverbi, ma sono le similitudini con La mia notte con Maud a colpire. In quel film, l’ingegnere Trintignant viene introdotto all’affascinante protagonista da un amico, professore di filosofia. Qui è Jeanne a insegnare filosofia. Nel film capolavoro dei racconti morali, tra i due protagonisti la passione annunciata non si consuma; idem in Racconto di primavera, dove Jeanne, pur essendo attratta da Igor, padre dell’amica Natascha, sceglie di non cedere. In La mia notte con Maud l’impianto filosofico della sceneggiatura ruota intorno a Pascal; qui è Kant l’epicentro concettuale, come esplicitato dalla scena cruciale del dialogo a tavola tra Jeanne, Natascha, Igor e la sua compagna, Ève. La discussione sulla possibilità del giudizio sintetico a priori (un giudizio non implicito nell’oggetto, non ricavato dall’esperienza ma formulato dalla ragione) svela la passione di Jeanne per la filosofia trascendentale, ovvero l’analisi del modo in cui il soggetto conosce l’oggetto. La riflessività di Jeanne, la sua rigidità morale, si concretizzano nella mancata concessione a Igor. In effetti, la reale intensità, persino l’esistenza di questo desiderio non è possibile accertarli. Tutto ciò che abbiamo è una vaga ammissione di Jeanne. Ma Jeanne potrebbe benissimo accettare il gioco della seduzione semplicemente perché è quello che, vista la situazione, ci si aspetta da lei, dal suo personaggio

Dietro il garbuglio amoroso c’è la manipolatrice Natascha. Il personaggio intrigante è un classico di Rohmer, probabilmente un’influenza della Emma di Jane Austen. In Le beau mariage, Clarisse spinge Sabine tre le braccia del cugino. In L’amico della mia amica, Léa si impegna per procurare a Blanche un incontro con il bell’Alexandre. Uno dei grandi temi del cinema rohmeriano è l’autoinganno. I personaggi del regista francese coltivano un’idea e ne rimangono ossessionati, al punto da perdere il contatto con la realtà. In questo, per proseguire l’esegesi delle fonti, c’è forse qualcosa de L’adolescente di Dostoevskij. Natascha suggerisce, insinua, briga, omette, insomma agisce subdolamente per realizzare il proprio sogno, spodestare nel cuore del padre la saccente, giovane, bella, ambiziosa Ève e al suo posto metterci Jeanne. Quando questa glielo rinfaccia, lei nega le proprie macchinazioni con una intensità, una passione, che non può essere (solo) il prodotto di una faccia tosta fuori dall’ordinario, piuttosto (anche) la spia di un autoinganno assai efficace. Pur essendo popolato di chiacchieroni, di campioni di una borghesia intellettuale fatua, annoiata ma non per questo priva di una qualche coscienza di sé, il cinema di Rohmer rimane garbatamente ambiguo. È più facile che un personaggio rohmeriano assista a un prodigio cosmico (il raggio verde) piuttosto che veda i bordi estremi del proprio agire. Il mondo, per questi uomini e queste donne, è un gigantesco angolo morto. Persino al più fragoroso degli urti può non seguire un reale risveglio.

Jeanne sceglie di non vivere la possibilità incarnata da Igor, dongiovanni agée inutilmente vanitoso, pavido e un po’ sciocco. La relazione segnerebbe non solo una svolta sentimentale, ma sociale. Come ha giustamente sottolineato un critico, il film di Rohmer è percorso da una sottile contrapposizione di classe, un tema che il regista francese, seppure in filigrana, non ha mancato di affrontare altrove. Jeanne insegna filosofia al Jacques Brel, liceo di un quartiere operaio nel cui nome non risuona la minima traccia di quell’ironia che invece Moretti mette nel suo sgargiante e kitsch liceo Marilyn Monroe (Bianca). Per di più, Jeanne ama il proprio lavoro, ha una forte etica (socratica) della propria missione di educatrice, preferisce insegnare Platone e Spinoza ai figli degli operai piuttosto che, come Eve, avere le mani in pasta dappertutto. Eppure, l’anti-mondana Jeanne, che si dice interessata solo al proprio pensiero (e quindi Kant è la giustificazione filosofica perfetta, perché cos’è l’idealismo tedesco se non la forma nobile del solipsismo?) rimane affascinata dalla casa – rieccoci – di Natascha, in cui si trova a soggiornare essendo di fatto estromessa da entrambe le sue abitazioni, quella che divide con Mathieu perché non sopporta il disordine del compagno in sua assenza, e quella sua propria perché incapace, per innata passività, di sloggiare Gaëlle. La casa di Natascha (è sua, Igor vive per conto proprio e lo stesso la madre della ragazza) non è un ambiente piccoloborghese, piuttosto una specie di dimora vetero-patrizia, sa di antica nobiltà, con gli altorilievi sulle porte e le immancabili eccentricità dei ricchi, nel caso specifico quattro pilastri che circondano il tavolo nel soggiorno. Una bizzarra delimitazione dello spazio in cui Jeanne dichiara di non credere, ma da cui in qualche modo è attratta. A un certo punto, Natascha insinua che Jeanne non ami il fidanzato. Jeanne reagisce stizzita. Il punto, spiega, non è vivere con Mathieu, ma vivere come da sposati senza esserlo realmente. Una situazione paradossale alla quale Jeanne reagisce in modo paradossale. Non cercando a tutti i costi, ottusamente, il beau mariage con Igor, piuttosto negandosi con metodo, per ritornarsene poi, sul finale, nel quotidiano disordine. 

Si capisce perché Rohmer abbia dedicato molti film al grande rito delle vacanze estive. Le vacanze rappresentano una parentesi eccezionale nel flusso della vita produttiva. Rohmer ama raccontare la sospensione delle certezze che si originano da pretesti minimi. Le avventure dei suoi personaggi sono piccole smagliature nella più piatta normalità. Quella con Maud non poteva che essere una notte, mai avrebbe potuto essere una vita. La vita è un complicato, noioso castello di illusioni di cui gli eroi e le eroine rohmeriane sono proprietari e affittuari insieme.

Più di altre pellicole di Rohmer, Racconto di primavera è un film di case, in generale un film di spazi carichi di significati filosofici, psicologici e psicoanalitici. L’appartamento del compagno di Jeanne è il luogo del ménage familiare, del lavoro ma anche dei sensi, del corpo e delle sue esigenze. Un perimetro di regressione istintuale, tribale (Jeanne lo definisce “il territorio” di Mathieu) che allude al caos dell’inconscio, del desiderio, i quali sono entrambi dominati da una loro peculiare logica, non sistematica e dunque inaccettabile agli occhi della ragione speculativa (Jeanne, maniaca dell’ordine, dice che Mathieu è disordinato come tutti i matematici). Un appartamento di tende tirate, scuro, sovraffollato di resti organici (gli avanzi di una colazione), di reperti di coppia ma soprattutto di Mathieu. L’appartamento è suo, Jeanne vi è ospite. Per contro, la casa di Jeanne è luminosa, è la sede dei suoi libri, dunque un polo razionale, apollineo, eppure anche lì Jeanne è un’estranea, causa la presenza della giuliva cugina, ospite temporanea ma certamente poco discreta (all’inizio del film, Jeanne la sorprende con il suo fidanzato, un soldatino). Il soggiorno a casa di Natascha non muta la condizione esistenziale di Jeanne (l’ospite), ma segna quasi una tregua, al punto che la donna sembra trovarvisi a proprio agio più che altrove. È una dimora importante in tutti i sensi, in cui si stratificano, senza soluzione di continuità, una cultura di classe e una storia familiare anche dolorosa. Progettate da un architetto di grido, le colonne che circondano il tavolo, secondo Natascha, sono state la causa della fine della relazione tra i genitori. Scopriremo più avanti che la vera ragione del divorzio, quantomeno la più diretta, è stata l’infedeltà di Igor. 

Quella di Natascha è anche una casa piena di libri, la casa di un’artista di professione (la ragazza è pianista) e di un artista dilettante, altro topos rohmeriano. Igor, dice la figlia, sa scrivere molto bene, ma è insicuro e vittima dell’influsso “nefasto” delle donne, Ève in primis. Jeanne, invece, non sa creare, non può. È goffa e impacciata, che si tratti di affettare un salame o abbandonarsi a un amplesso. Non è chiaro quanto questo sia un tratto del personaggio e quanto, in minima parte, una caratteristica dell’attrice, Anne Teyssèdre, che subito dopo il film di Rohmer, come folgorata, abbandonerà la carriera di comédienne per dedicarsi alla letteratura e alla critica cinematografica. Scriverà, guarda caso, diversi saggi sul regista francese. (A proposito del gioco di simmetrie con altri film di Rohmer: Marie Rivière, musa de Il raggio verde, era un’insegnante prima di vedere Amore nel pomeriggio.) La scena della seduzione tra Jeanne e Igor, ambientata nella grande casa di campagna di lui, richiama, per certi aspetti, quella del rendez vous tra Depardieu e Ardant in La signora della porta accanto di Truffaut. Lì i due amanti, in un luogo terzo dalle rispettive dimore (la camera di un alberghetto), danno vita a una lenta e perfettamente coreografata danza amorosa scandita dal dolce, suadente imperativo di pazienza della Ardant («Attends!»)a cui Depardieu accondiscende («J’attends!»), insieme una formula erotizzante e un modo di imporre una disciplina ai sensi il cui scopo, però, non è il ripristino di un ordine morale ma una massimizzazione del piacere a venire. Jeanne e Igor, pure loro inscenano una danza, ma assai più goffa, con l’esitante Igor, un uomo dalla postura spesso non adeguata, poco limpida, laterale, sgusciante, che si avvicina, abbraccia, bacia prima la mano poi le labbra di Jeanne chiedendo sempre il permesso. 

Sostenere che Jeanne si conceda a questo gioco è un fatto tecnicamente corretto ma fuorviante. Più giusto è dire che non si sottrae. Jeanne si sforza di incarnare il soggetto morale kantiano, il controllo degli istinti corporei per opera della ragione. L’attività di Jeanne è, in realtà, una passività in cui si può riconoscere la stessa ostinata rinuncia di Delphine in Le rayon vert. Delphine tenta disperatamente di sottrarsi all’edonismo consumistico della società anni Ottanta scegliendo la vita di una solitudine eterea, romanzesca, misticheggiante – una scelta non immune da una certa affettazione. Jeanne sembra indubbiamente più solida, ma è lecito supporre che anche in lei sussista una certa inconfessabile inconsistenza. Rohmer, in un’intervista, dichiarò: «I personaggi che mi attraggono non sono quelli che sarebbero, malgrado loro, il giocattolo di forze nascoste. Preferisco nettamente i personaggi che padroneggiano le pulsioni che sono in loro e che si tengono indietro, che guardano sé stessi, che hanno coscienza della propria coscienza. Questo movimento di sdoppiamento, che è il movimento proprio della coscienza, questo movimento nel quale si vede nascere l’intenzione, mi appassiona». Ma la coscienza che si specchia in se stessa rimane vittima del sortilegio del linguaggio, un’ipnosi che allontana dalla verità. Di questo Rohmer non poteva non essere consapevole. 

Jeanne trascorre la propria vita pensandosi pensare, è l’ospite più radicale che si possa concepire – ospite di se stessa. Nella sua condizione non c’è un grado di verità maggiore che nella vita, ad esempio, di Ève, il suo alter ego mondano e pragmatico. La riprova sta proprio nel finale, che sembra indicare una riconciliazione, una traiettoria finalmente conchiusa tra spirito/pensiero e materia/vita. Poco prima dell’epilogo, si scioglie il “giallo” che aveva accompagnato fino a quel momento il confronto tra i quattro personaggi, la scomparsa di una collana della quale Natascha accusava Ève. Jeanne ritrova il gioiello in una scarpa di Igor. Com’è finita lì? Probabilmente, un gesto maldestro di Igor nell’atto di spogliarsi. Il caso, insomma. Il ritrovamento, pure questo è figlio di una coincidenza. Oppure, si potrebbe ipotizzare, la conseguenza di un rinnovato accordo del mondo con la coscienza di Jeanne finalmente rinata, il soggetto morale pienamente sbocciato. La verità, però, è che quando la ragazza ritorna nell’appartamento di Mathieu, nulla nei suoi gesti lascia supporre che la crisi sia passata. Jeanne continuerà a pascolare nella sua stessa noia, quella noia di cui è straordinariamente consapevole ma da cui, per un eccesso di riflessione, non impara nulla, un puro fatto.

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