Essere per l’amore. Èric Rohmer, “Il raggio verde” (1986)

Una scena de "Il raggio verde", "Le rayon vert" (1986), film di Èric Rohmer

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Sospetto che il carattere enigmatico de Il raggio verde (1986) di Èric Rohmer non dipenda dalle piccole bizzarrie che la sceneggiatura dissemina, piuttosto dalla tensione tra un cinema costruito, un cinema-cinema, e un cinema improvvisato, di taglio quasi documentaristico, che percorre tutto il film. L’incastro è piuttosto evidente, una saldatura non perfetta che apre squarci impensati nell’andamento inerziale della narrazione. L’apparizione inopinata delle carte da gioco o delle insegne “Le rayon vert”, scandita dal leitmotiv di una musica cameristica composta dallo stesso Rohmer sostituendo le note alle lettere del nome “Bach”, recupera un senso di stringente premeditazione narrativa che il film, il più delle volte, trascura in favore di un gusto per l’improvvisazione (seppure controllata). Il risultato è una brusca ristrutturazione del senso di tutto quanto abbiamo visto fino a quel momento. Ci sono due personalità in azione ne Il raggio verde. Da un lato Marie Rivière, protagonista nei panni della lacrimosa, sciatta, insopportabile, piccola Delphine, nonché co-sceneggiatrice, una di quelle pseudo-dilettanti che Rohmer amava (ex commessa e insegnante, inviò una foto al regista dopo aver visto L’amore nel pomeriggio, così ottenne la prima particina ne Il fuorilegge, poi ne La moglie dell’aviatore). Dall’altra, Rohmer stesso, il venerato maestro che dirige l’orchestra di un film che più bavard non si può.

«Meglio vivere sognando un ideale che adattarsi a una mediocre realtà», è il motto di Delphine, la cui solitudine è una scelta di risparmio, di sottrazione, un desiderio di non lasciarsi zavorrare dalla mediocrità delle relazioni usa e getta perfettamente in linea con la sua natura di creatura eterea. In uno dei dialoghi più lunghi del film, discute a tavola con un gruppo di persone in merito alla propria alimentazione vegetariana, mostra una sensibilità naïf. Non a caso, più avanti, la vediamo leggere L’idiota. Il romanzo di Dostoevskij racconta, in soldoni, la storia di un individuo “malformato” (epilettico) la cui ingenuità è fonte di derisione. Ne Il raggio verde, la diversità esibita di Delphine non è il prodotto romantico di una patologia. Delphine è il tipico personaggio rohmeriano intrappolato nelle proprie convinzioni, incapace per questo di stabilire un accordo con il resto del mondo. 

Anche qui, come ne Il bel matrimonio, va in scena una tenace contrapposizione di volontà. Da un lato la protagonista, che sembra volersi condannare a un destino di esclusione a seguito di un trauma sentimentale, dall’altro il mondo, che per bocca di amici, parenti, conoscenti cerca di imporle il dovere sociale della felicità (siamo pur sempre negli edonistici anni Ottanta). Alle obiezioni di buon senso che suonano come frasi fatte («Devi darti da fare!») o, peggio, doppi legami («Esprimiti!»), Delphine oppone un mondo romanzato, fatto di piccole superstizioni, segni del destino, rivelazioni che culminano nella visione spettacolare e fugace del raggio verde, l’elemento magico, il sortilegio che le consentirà di vedere chiaro nei propri sentimenti e in quelli altrui. Basterà? Impossibile dirlo. Delphine è vittima di un destino che essa stessa contribuisce a costruire, come l’attore con il canovaccio. Il rito delle vacanze estive, stravolto dall’ideologia capitalistica in brulicante consumo di massa, si trasforma in una recita a soggetto. Delphine cerca ripetutamente conferme del proprio destino romanzesco, e le trova nella chiacchierata di un gruppo di turisti sul libro di Jules Verne, Le rayon vert. Interessante notare la sua postura nel momento in cui un vecchio dalla meravigliosa barba bianca e l’accento esotico descrive il fenomeno fisico che dà il titolo al romanzo. Delphine rivolge lo sguardo al mare, trattiene la commozione, si trasforma nell’eroina del romanzo, che rinvia le nozze con il promesso sposo finché non avrà assistito al prodigio cosmico. 

Malgrado questa dose di affettazione, la sua sofferenza è autentica. Nel precedente capitolo del ciclo dei proverbi, Le notti della luna piena (1984), la protagonista Luise ricercava la solitudine come un balsamo. Delphine, invece, avverte tutto il peso della propria condizione. «Ah! Venga il tempo / In cui i cuori si innamorano!» è l’esergo del film, tratto da Rimbaud. Jacques, incontro fortuito in una stazione di Biarritz, può essere lui l’amore che redime il dolore. Tenendogli la mano su una scogliera di Saint-Jean-de-Luz, Delphine riesce a scorgere il raggio verde. Il miracolo diegetico ne richiama un altro, extra e assai più prosaico. Girato in 16 mm e costato meno di 200 milioni di lire, Il raggio verde incassò circa 15 miliardi. Un successo clamoroso, coronato dal Leone d’Oro a Venezia, per un film forse invecchiato meglio di altri film di Rohmer, e che oggi, in epoca di socialità fasulla ed esposizione narcisistica, ci interroga con stupefacente profondità sulla fatica e la sofferenza di una scelta strenua di unicità.

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