Iscrivendoti, autorizzi il trattamento dei dati personali secondo quanto stabilito nella privacy policy
Come tutti gli oggetti kaufmaniani, Sto pensando di finirla qui si imprime dolcemente nelle sinapsi, lascia un retrogusto, aleggia nel territorio irreale della nostalgia di vite non vissute. Il lavorio della coscienza filtra come un colabrodo, ma nell’arte contano i sedimenti, ciò che rimane dopo che si è compreso (o non compreso). Difficile definire Sto pensando di finirla qui un film se per voi la sceneggiatura è un’applicazione cartesiana. Il soggetto è esile: Lucy e Jake (Jessie Buckley e Jesse Plemons) viaggiano in auto diretti a casa dei genitori di lui. Non stanno insieme da troppo, sei sette settimane al massimo, eppure lei sta pensando di finirla qui, lasciarlo. Lui è istruito, dolce, intelligente, un progressista politicamente ipercorretto, simpatico non troppo, a dire il vero, un po’ strambo, pieno di attenzioni, goffo, insomma un cucciolo, ma lei non è convinta, anche perché poi si sa come vanno queste cose. Partono e comincia a nevicare, uno spruzzo che sembra una benedizione. Lungo la strada di campagna il nevischio diventa bufera. Nessun problema, dice lui, abbiamo le catene. Il dialogo è teso, lei è distante.
La parte migliore del film è quando c’è Jessie Buckley. Buckley è figlia di uno che si chiama Tim, e quando l’ho letto su Wikipedia mi è preso un colpo. C’entra niente, però, il “marinaio delle stelle”, anche se quello di Kaufman è un viaggio lunare. Immersi nella neve lattiginosa, sfilano nei finestrini gelaterie, altalene, un paesaggio onirico, post-apocalittico come quello che fa da sfondo in Ice, Ghiaccio, il romanzo di Anna Kavan di cui Jake parla a Lucy (è un indizio importante). Nella casa dei genitori di lui, Kaufman allestisce un teatrino grottesco come certe cose di Michel Gondry, ma più angosciante, anzi thrilling. Toni Collette, la madre, e David Thewlis, il padre, sono due bifolchi orribili, logorati dalla vita. A tavola, Jake si rivela per quello che è: un uomo disturbato, fragile, ossessionato dallo spettro del fallimento, desideroso di riconoscimento. “Diligente”, questo gli hanno sempre detto. Non “genio”, “diligente”. Che sventura non essere nessuno, non avere talento, non avere idee proprie. Anche Lucy. Come si chiama realmente? Lucy o Amy, Ames? Nei titoli di coda è semplicemente “young woman”. Che lavoro fa? Poeta, pittrice, gerontologa, fisica, ogni volta la qualifica cambia. La poesia che ha recitato in auto, scopre, non è sua, ma di tale Eva H.D. C’è il libro al piano di sopra, nella stanza di Jake bambino. I quadri di cui ha le foto sul cellulare non li ha dipinti lei, ma Ralph Albert Blakelock, e Jake li ha riprodotti. Quando, più tardi, nel viaggio di ritorno, sempre Lucy-Amy-Ames disserta su Una donna di Cassavetes, non sta facendo altro che re-citare una capziosa recensione di Pauline Kael – nella stanza di Jake c’era anche il suo ponderoso tomo, ormai introvabile. Per fortuna la Kael non la legge più nessuno.
La ragazza e Jake sembrano in contatto telepatico. In un paio di occasioni, lui si rivolge a lei quasi sentisse il rumore dei suoi pensieri (il voiceover). In casa dei genitori di Jake c’è una foto di lui da bambino. O forse è lei?
Prima, provvisoria interpretazione: stare insieme a qualcuno ti cambia. La simbiosi stravolge i lineamenti, l’identità svanisce, si accetta il rimescolio, la con-fusione, in cambio del miracolo, l’unicità che l’amore regala (regalerebbe. Roth diceva che prima sei uno, poi l’amore ti spezza). L’amore non inventa nulla, la vita non è mai nuova, originale. «E’ questione di fortuna. Ti giochi la mano che ti viene data», dice a un certo punto un maiale parlante (sic!). Il meglio che si può fare, forse, è essere diligenti. Ma l’Io ne soffre, vuole di più, questo maledetto. C’entrano le ansie del Kaufman autore. Il soggetto del film è tratto da un romanzo di Iain Raid. «Non so se sia stata un’epifania o una rottura con Adaptation», ha spiegato Kaufman in un’intervista, «ma da allora ho scoperto che ho più successo con gli adattamenti quando mi permetto di prenderli e farne qualunque cosa abbia senso per me». Adaptation è Il ladro di orchidee, in cui Kaufman mette in scena sé medesimo, ovvero uno sceneggiatore in crisi per la difficoltà di adattare al cinema un soggetto, l’omonimo romanzo di Susan Orlean.
In Sto pensando di finirla qui il solipsismo è sistema. L’epicentro del complesso intrico di visioni, paranoie, citazioni più o meno dirette non è la ragazza, ma Jake. O, per meglio dire, il suo “autore”. Il racconto del viaggio dei due è intervallato da sequenze che mostrano un uomo anziano, un bidello, impegnato nelle misere incombenze quotidiane. Jake è la sua proiezione, ma anche Lucy o come si chiama. La ricostruisce dai libri, dai film, dalle donne che ha conosciuto, che lo hanno rifiutato, le attribuisce le proprie passioni. In Synecdoche, il primo film di Kaufman dietro la macchina da presa, personaggi e interpreti della commedia del regista teatrale Caden si confondevano tra loro, sostituendosi, ribellandosi all’autore. Lucy fa lo stesso. Jake le dice di non scendere in cantina, e lei (su consiglio della madre di lui) ci va. L’uomo vorrebbe che rimanessero nella fattoria, o tornarci quando sono già andati via, ma la ragazza è inflessibile, vuole andare. Lucy vive di vita propria, ha pensieri, sensazioni, sentimenti, persino una coscienza, ma non è reale, proprio come la ragazza che il protagonista di Ghiaccio insegue (eccolo, l’indizio!). E però metterla così è un errore. Che significa “reale”? Sul finale, mentre il bidello agonizza nell’auto sepolta dalla neve, il maiale parlante dice: «Tu, io, le idee, siamo una cosa sola.» Il maiale è la versione animata di un ricordo infantile, un suino morto divorato dai vermi nella stalla di famiglia. Una metafora della follia, della vita non vissuta che ti consuma dentro. E dunque a cosa fa davvero riferimento il titolo del film? A cosa si vuole porre fine? A una relazione? O a una vita monotona, alienata, dalla quale i brutti film hollywoodiani (come quello apocrifo di Zemeckis che il bidello guarda in pausa pranzo) offrono un temporaneo sollievo? È Jake che dice: «non tutte le cose vogliono vivere». Come a giustificare, a iscrivere nell’ordine naturale la pulsione autodistruttiva per renderla più accettabile. Nel libro di Reid la narrazione è inframmezzata da capitoli che descrivono una macabra scena di suicidio. Nel film, il telefono di Lucy squilla in continuazione. All’altro capo della linea è il vecchio che teme di impazzire, confessa la propria paura, sembra uno colto in un momento fatale, uno pronto a premere un grilletto.
Ma cos’è la morte? A Kaufman la nozione di mondo fisico sta stretta. Il cinema è, come per Gondry, “l’arte del sogno”, dunque è possibile che il bidello e Lucy si incontrino, che lui le sorrida, la abbracci, le dica addio tra le lacrime; che Lucy e Jake si sdoppino ulteriormente in una coppia di ballerini in una scena ispirata al “dream ballet” del musical Oklahoma!, in cui la protagonista Laurey immagina il suo futuro con due uomini che la desiderano, Curly, l’eroe, e Jud, l’antagonista; infine, che il doppio ballerino di Jake muoia per mano di un bidello accoltellatore. Il protagonista forse non è quel candido che si potrebbe supporre. Durante la sosta al Tulsey Town, una sciocca catena di gelaterie inventata da Kaufman, una cameriera dalle braccia ricoperte da un orribile sfogo confessa a Lucy di avere paura per lei. Jake interrompe bruscamente il loro dialogo. La cameriera l’abbiamo vista nel corridoio della scuola in cui lavora il vecchio. Le ha forse fatto del male? Che sia un guardone? Nel parcheggio del liceo, dopo un litigio, Jake e Lucy scambiano un bacio. Forse vorrebbero andare oltre, ma Jake si ritrae di colpo: qualcuno (il bidello) li sta spiando. Nel frammento che Kaufman mostra, il vecchio guarda attraverso una fessura. Chi? Magari le altre due waitress del Tulsey Town, le bionde “scialbe, cattive e carine” che Jake poco prima neppure ha sfiorato con lo sguardo, quasi si vergognasse. Abbiamo già visto anche loro, all’inizio del film prendono in giro il bidello, la sua camminata. Recitano in una versione scolastica di Oklahoma! Quando il vecchio fissa una delle due, quella rabbrividisce. In auto, Jake cita Baby It’s cold outside di Frank Loesser. Lucy lo rimprovera. La canzone, dice, giustifica lo stupro. È un vecchio dibattito americano, un pezzo del 1944 probabilmente innocuo ma trasfigurato in chiave creepy dall’odierna sensibilità ultraliberal (la stessa, per inciso, che accusa di razzismo per omissione Oklahoma!). Un eccesso che giustifica una domanda: Jake è un maniaco o un ingenuo terrorizzato dal male che sporca il cuore dell’uomo?
Poco importa, siamo ai titoli di coda. Il commiato è all’insegna della teatralità. Finito il turno di lavoro, in auto il vecchio ha un malore. Sogna. Il maiale parlante, il Nobel. Sul palco cita il discorso finale di Russel Crowe in A beautiful mind, il cui DVD custodiva nella cameretta. Freud lo chiamava il lavoro onirico. Il sogno sfrutta materiali di prima e seconda mano, le esperienze di vita, i racconti altrui, la cultura alta o bassa, per imbastire la propria sceneggiatura. Ancora il musical, ancora Oklahoma! Fondale di cartapesta, pubblico invecchiato volutamente in modo grossolano in cui si riconoscono i genitori e la ragazza. Jake, incanutito, canta: «Get me a woman to call my own», da Lonely room, la canzone di Jud. Un altro indizio di come il vecchio si identifichi con l’outsider violento e disperato, non con l’eroe buono. Lucy o come si chiama applaude forte, mentre Jake viene inghiottito dal blu. La dissolvenza (lynchiana) ricorda la chiusura in negativo di Dillinger è morto, il segno della fuga psicotica di Glauco-Michel Piccoli che Ferreri aveva rubato a Nosferatu.
Sto pensando di finirla qui è un piccolo grande film. Quadrato, claustrofobico, laddove Synecdoche giganteggiava, con le sue scenografie a perdita d’occhio e lo stucchevole sentimento oceanico, Philip Seymour Hoffman che piangeva come una vecchia zitella ogni tre per due al punto da indurti a sperare che avesse ragione a temere per la sua salute, forza cancro, su! Sto pensando di finirla qui è un puzzle perfetto, un incastro onirico tra il meraviglioso e il perturbante, un saggio surrealista sulla cultura pop e la costruzione dell’immaginario, sulla creatività, la vita, l’amore, la sensibilità neofemminista, il progressismo, la memoria, la morte. Menzione speciale per il direttore della fotografia Łukasz Żal, che sceglie il 4:3, tinge quasi a olio gli interni, lascia gli esterni al buio freddo, asseconda il teatrino del dolore di un Kaufman – mai avrei pensato di dirlo di un artista – finalmente imbrigliato.
Iscrivendoti, autorizzi il trattamento dei dati personali secondo quanto stabilito nella privacy policy