Il contratto

Luigi di Maio e Giacinto della Cananea

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Un po’ di tempo fa ho scritto un articolo sulla “fine della politica”. Il pezzo era forse pretenzioso nella lapidarietà del suo assunto; sicuramente peccava di ingenuità. Il tramonto della politica, intesa come pratica volta a stimolare, nella società, il dibattito e l’elaborazione di un’alternativa radicale agli attuali assetti istituzionali ed economici, dominati dalla tirannia del mercato e da una spaventosa iniquità, non è certo cosa di oggi. È il prodotto di una serie di complesse trasformazioni in atto da decenni (dal secondo dopoguerra, almeno). Certo, la recente campagna elettorale ha segnato il nadir della credibilità delle forze partitiche. Mai si era visto un simile spettacolo di cialtronaggine, improvvisazione, menzogna. A distanza di oltre 50 giorni dalla vittoria (mutilata) del Movimento 5 Stelle e di Matteo Salvini, la situazione non appare migliorata. Era forse non logico ma certamente lecito sperare che, messi difronte alle proprie responsabilità, i cosiddetti vincitori rinunciassero allo starnazzare da galline della campagna elettorale e recuperassero un minimo di rispetto del proprio ruolo e dei cittadini che si vantano di rappresentare. E invece niente.

Fatta salva una primissima fase nella quale toni e modi s’accordavano alle speranze di una minima maturazione, le settimane successive hanno segnato un’escalation di proclami farneticanti, sicumera, velleitarismo. L’istituzionalità sopravvive nei vizi: il balletto di pontieri, incontri segreti, dichiarazioni in codice, veti, fughe di notizie pilotate e smentite. Si propagano nel vuoto pneumatico di un’opinione pubblica bizzosa, incoerente, infantile, in cui l’analfabetismo istituzionale si mescola a quello funzionale (e di ritorno) riempiendo di mostruosità i feed social e le sezioni dei commenti sui giornali.

Tutto questo sarebbe già sufficiente a confermare le tesi di quel mio articoletto. Ci si può, però, a coronamento, aggiungere un fatto nuovo, su cui vale la pena di riflettere: il contratto.

Qualche settimana fa, Luigi Di Maio ha incaricato il professor Giacinto della Cananea di mettere a confronto i programmi delle due forze politiche opposte al M5S e di sintetizzarli in un contratto da proporre indifferentemente ai rispettivi leader, sul modello tedesco. L’operazione, culminata ieri nella presentazione del fatidico documento, è illogica e aberrante, per una serie di motivi.

Innanzitutto, analizzare i programmi elettorali (questi programmi elettorali) come fossero frutto dell’elaborazione sistematica di una qualche visione politica, dunque espressione affidabile e intellettualmente onesta dell’identità di un partito, e non un trito espediente di marketing, è nella migliore delle ipotesi un malinteso, nella peggiore una pratica disonesta. Il fatto che venga da un docente universitario getta ancora una volta una luce sinistra sul ruolo che le istituzioni culturali hanno in questo paese.

È un’obiezione morale e non scientifica, mi rendo conto, ma il punto, in fondo, è proprio questo. Il dominio della scienza e quello della politica non sono condivisibili. La scienza ricerca il vero: i suoi giudizi sono validati dalla conferma del dato reale. La politica ricerca il bene, che non è afferrabile da un’equazione, tantomeno sanzionabile dalla realtà. La società è un prodotto storico, ovvero la conseguenza dell’azione dell’uomo. Non un ordine “naturale”, ma un’intelaiatura pervertita dalle necessità di gruppi egemoni. In questo contesto, perseguire il bene significa, al contrario, “negare” l’ordine costituito, ovvero contrastarlo e sforzarsi di correggerlo o superarlo. Come è possibile credere che possa essere la scienza, con i suoi criteri formali, asettici, a dettare la linea della politica?

Uno non vale l’altro. È impensabile attuare un cambio radicale di paradigma (come da intenzioni del M5S) se si fissano obiettivi generici e si postula l’intercambiabilità delle politiche da attuare. La sicurezza è un obiettivo condivisibile, ma un conto è pretendere di realizzarla chiudendo le frontiere e rifiutandosi di soccorrere chi muore in mare, un conto è sforzarsi di legarla all’integrazione, agli investimenti in cultura nelle periferie, all’attuazione di percorsi di recupero alternativi al carcere eccetera. Il valore di queste ricette non è nell’aderenza alle richieste del popolo, neppure nell’efficacia di breve periodo. Piuttosto, nel messaggio di cui si fanno portatrici. Verità, progresso morale, giustizia. Di questo abbiamo bisogno.

La politica, però, non sa decidere. Non sa decidersi a mollare gli ormeggi delle poche e per giunta vaghe certezze su cui i leader odierni hanno costruito il loro fragilissimo consenso. Perché questo consenso, seppur limitato, è comunque sufficiente, paga. E poi la certezza di un potere limitato è meglio del rischio nessun potere, dunque avanti così, con la testa ai sondaggi e le orecchie alle urla del popolo, pronti a infuocarle con la benzina del marketing. E poi, se va male, che problema c’è? Basta una firmetta qui e un’altra qui, per favore…

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AUTORE

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Marco Loprete

Marco Loprete è l'autore degli articoli di iufa.it. Nel 2019 ha pubblicato il romanzo "In un futuro aprile" (Ensemble), ma non ne va troppo orgoglioso. Appassionato di cinema, musica e libri, è un accumulatore compulsivo e un chitarrista maldestro. Fuori da questo blog, alla luce del giorno, è un discreto web designer e consulente SEO (www.marcoloprete.it).

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