L’Isola è separata dal resto del mondo dal mare e da una maledizione. Il Naufrago, figlio del destino o della casualità (del destino mascherato da casualità), ne accetta la natura selvaggia, indomabile. Non costruisce capanne: dorme in una zona paludosa, rischiando la vita ad ogni rigonfiamento di marea. Non va a pesca o a caccia: si nutre di radici. Non tenta la fuga: il legno degli alberi è marcio e anche non lo fosse, non saprebbe costruire una zattera. La sua prospettiva cambia quando, una notte, dall’alto di una collina si diffonde una musica, un valzer. Uomini e donne, ben vestiti secondo la moda di qualche decennio prima, lo ballano con l’eleganza un poco assente dei privilegiati. Sembrano spuntati dalla terra, come i funghi.
L’invenzione di Morel di Adolfo Bioy Casares (1940, ripubblicato da Sur) è un libro permeato di una malinconia lunare, disperata, come l’erotismo di certi amori non ricambiati. Il Naufrago (che non ha nome, perché caso e destino non ne hanno) fugge dalla Storia, è un perseguitato politico. Si innamora di Faustine che non lo vede – letteralmente, e così i suoi misteriosi compagni. La verità è nascosta nella cantina del Museo, la struttura che domina la parte alta dell’isola: è un macchinario, l’invenzione di Morel, che permette di replicare la vita registrandola e proiettandola nello spazio. È Morel stesso a confessarlo ai suoi ospiti: sono stati ripresi di nascosto, in quella settimana di letizia del 1927, per consegnarli a un’eternità sgravata dall’angoscia del baratro in cui il mondo precipitava. Le proiezioni sono ciò che erano nel momento della registrazione, non un pensiero di più. Di meno c’è il futuro, che Faustine, occhi e capelli neri di zingara, non ha potuto raggiungere, poiché l’immortalità ciclica di Morel (il macchinario si attiva con le maree) ha il prezzo più alto. Chi si sottopone ai ricettori della Macchina finisce corroso dalla febbre delle radiazioni (il morbo che uccide «dall’esterno verso l’interno»). O, per stare al mito, vede la propria anima aspirata via dal corpo, cosicché questo, perduto, cede alla consunzione.
Quella di Casares è una storia di specchi. L’ispirazione viene da lì: nella tenuta familiare del Rincon Viejo, a Pardo, il giovane scrittore ammirava rapito le infinite rifrazioni dell’immagine dello spogliatoio materno in uno specchio veneziano «con boccioli di rose rosse e foglie verdi, in legno, sulla cornice». La possibilità che una macchina catturi e riproduca la vita attraverso i cinque sensi è il nucleo del romanzo. Il quale, contrariamente alla lettura che ne diede Borges, amico e sodale di Casares, è difficilmente ascrivibile alla narrativa di genere. L’invenzione di Morel incorpora gli elementi del fantastico e della detection per imbastire una riflessione (filosofica, più che psicoanalitica) sulla caducità dell’esistenza, sul mistero della coscienza, in cui la tecnica si fa portatrice di una circolarità che vanifica ogni climax e incastona la disarmante banalità della vita umana nella goccia d’ambra di un cinema totale. Attore e spettatore si confondono, si scambiano di posto: il Naufrago, rapito dall’immagine di Faustine, idolo muto e distante, sceglie di attraversare lo specchio, si consegna alla registrazione, nella speranza di entrare nel cielo della coscienza dell’amata (e di strapparla al rivale Morel).
Ma l’immortalità offerta da questo cinema (dalla tecnica) è incompleta proprio per la sua assolutezza. L’immortalità, cioè, ha senso solo se qualcuno può raccoglierla, rielaborarla. La scrittura, arte antica quanto quella Storia dalla quale Morel e il Naufrago fuggono, corre in soccorso. Casares sceglie la forma della narrazione in prima persona, tra il diario e il memoriale: il Naufrago racconta dal principio e fino all’ultimo, auspicando che chiunque raccolga quelle poche note possa ideare una macchina in grado di aiutarlo a raggiungere il suo scopo. Dunque, un lettore è necessario. Casares, post-modernista ante-litteram, si diverte a stuzzicarlo con ganci meta-narrativi: il testo del Naufrago ne contiene altri (per esempio, i fogli della confessione di Morel, il cui nome rimanda al Moreau di Wells e a Tommaso Moro) ed è a sua volta contenuto in un’edizione annotata da un curatore che interviene ad arricchire, a correggere, a precisare, in ossequio a quel gioco di specchi di cui si diceva.
La traiettoria non sarebbe completa se de L’invenzione di Morel non esistesse anche una trasposizione cinematografica. Più asciutta e, insieme, rarefatta, la pellicola è l’esordio di Emidio Greco (1974). John Steiner e Anna Karina offrono il corpo alle immagini di Morel e Faustine, mentre Giulio Brogi condensa l’angoscia del Naufrago nel pallore del suo sguardo spiritato e afflitto. Su tutto veglia Cocteau: il cinema, qui, è davvero «morte al lavoro sugli attori».

“L’invenzione di Morel”
- Autore: Adolfo Bioy Casares
- Traduttore: Francesca Lazzarato
- Editore: Sur
- Anno di edizione: 2017
- Pagine: 133 p., brossura
- Ean: 9788869980626
