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Aftersun, lungometraggio dell’esordiente Charlotte Wells, immerge lo spettatore nel bagno di sviluppo di un dolore inestirpabile, la lenta e analogica presa di coscienza, dal nero del ricordo, del peso della perdita e di cosa voglia dire diventare adulti.
La sceneggiatura, firmata della stessa Wells, è incentrata sull’ultima vacanza del giovane e spiantato Calum con la figlioletta Sophie in un modesto villaggio vacanze turco. Il rapporto tra i due è altalenante ma affettuoso. Calum ha passato la boa dei trent’anni, va per i trentuno, è in piena crisi da bilancio fallimentare. La buona volontà, i libri di self-help e il tai-chi non riescono a scacciare il disprezzo di sé. Sophie, undicenne, è alle prese con le prime curiosità erotiche e i dubbi di chi si affaccia all’età adulta. Le incomprensioni tra padre e figlia sono accresciute dalla scarsa dimestichezza reciproca. Calum e la madre di Sophie sono separati. Il giovane vivacchia a Londra, tenta di ingegnarsi con progetti forse non proprio solidi, il resto della famiglia è nella nativa Edimburgo. Interrogato a proposito, Calum sostiene di non poterci tornare. «There’s this feeling, once you leave where you’re from, that you don’t totally belong there again», dice alla figlia. L’irlandese Paul Mescal fa un buon lavoro con l’accento, soprattutto dà corpo alle inquietudini di Calum col giusto mix di spavalderia esibita e fragilità rivelata in brevi, fugaci squarci (uno spunto contro lo specchio, una sigaretta sul balcone mentre la figlioletta dorme, un pianto disperato nella solitudine della notte). Frankie Corio, la piccola Sophie, è un’attrice nata. Occupa lo schermo con istinto e un pizzico di incoscienza, senza le insopportabili smorfiette hollywoodiane. I duetti tra i due sono deliziosi, carichi di tenerezza, risentimento, nostalgia, tutta la gamma del detto e del non detto. Gli scambi finiscono immortalati da una videocamera a vhs. Siamo nel 1999, la fine del secolo, come lascia intuire la colonna sonora a base di Blur, REM, Aqua, la Macarena. Il punto di vista è senza dubbio quello di Sophie. Il racconto della vacanza è inframmezzato dalle scene di Sophie adulta, con una compagna, mamma di una bambina, che guarda i vecchi nastri, che non si capacita. Il film sembrerebbe, dunque, un lungo flash-back, ma la sua natura è più obliqua, cangiante, ambigua.
Aftersun fluttua nella corrente intermittente del ricordo, tra detriti di sogno, labili prove documentarie, glitch analogici, immersioni amniotiche e desideri di ascese liberatorie che rischiano di confondersi nella fissità inquietante dell’azzurro, nello spazio circolare della memoria. La verticalità (l’allusione alla verticalità) è un tema ricorrente. Calum è un sub dilettante, sfida il mare pur non possedendo la licenza. Sophie, invece, guarda il cielo attratta dai deltaplani. Durante un tentativo di immersione, si lascia sfuggire una costosa maschera. Un presagio, un rifiuto inconscio della morte? L’acqua, in Aftersun, sembra associata a una dimensione adulta nel senso, a volte, più deteriore del termine. Dopo una lite con Sophie, in quello che è uno snodo cruciale del film, Calum si ubriaca, raggiunge la spiaggia, punta il mare nero, fragoroso, forse deciso a farla finita. In un’altra scena, sempre Calum forza Sophie a giocare a pallanuoto. Un’inquadratura dall’alto la mostra spaesata, vagamente impaurita, circondata di maschi adulti che si agitano frenetici. È sempre in piscina che Sophie assiste ai giochi erotici di un gruppo di ragazzi più grandi o che, verso la fine del film, mente il padre vaga perduto nella notte, bacia un coetaneo da cui, in realtà, non sembra particolarmente attratta.
Aftersun è pieno di prospettive bizzarre, decentrate, che alludono al fuoricampo dei sentimenti di Calum, la depressione contro cui lotta, il senso di inadeguatezza, i nodi irrisolti nel rapporto con la figlia e l’ex compagna. Nel caos dell’indecisione e del fallimento, la vita gli sfugge di mano – gli è già sfuggita. Quando guardiamo il film è troppo tardi. Il voiceover non sincrono, il montaggio ellittico, le lente panoramiche, le riflessioni in specchi, vetri, schermi, la fotografia naturalistica e stilizzata di Gregory Oke (il film è girato in 35mm), lo slow motion, i flashback senza soluzione di continuità stile Professione: reporter (dalla stanza di Sophie adulta all’aeroporto con Calum con una panoramica, ma è davvero l’aeroporto o un remoto anfratto di sogno?) accentuano la dimensione onirica, inafferrabile, tutta interiore, del film. Con l’aiuto del vhs, Sophie cerca di trovare una risposta alla domanda che la tiene sveglia la notte: perché? Il suo è un corpo a corpo spettrale con il ricordo straziante del padre. In una scena bellissima vediamo il fantasma di Calum materializzarsi su una pista da ballo, o forse è Sophie adulta il fantasma. I due ballano avvinghiati sulle note di Under pressure («This is our last dance / This is ourselves»), lampeggiati dalle luci strobo che permettono di cogliere solo alcuni squarci. In quell’abbraccio insopportabile c’è tutto: dolore, rabbia, disperazione. Lo spettatore è coinvolto in questo gioco, non è aldiquà dello schermo, ma nel pieno della notte decisiva. Il fastidio che l’intensità di Aftersun procura è quasi fisico.
Charlotte Wells, nella doppia veste di regista e sceneggiatrice, lavora una materia difficile con audacia stilistica e sensibilità di prima mano, pur essendo il suo un cinema modellato su precedenti illustri (Resnais, Antonioni). Calum è un brav’uomo che si è perso, il braccio rotto esibito nelle prime scene è il correlativo oggettivo di una menomazione interiore, oltre che un’allusione alla frantumazione dell’esperienza nel ricordo che il film mette in scena. Lui e Sophie cercano di stabilire un punto di contatto, ma ciò avviene per una specie di equivoco. Come dice Sophie, lei e il padre condividono lo stesso cielo, ma mentre nel sorriso dolce di lei brilla il futuro degli amplessi estivi, le sbronze alle feste, la vita, negli occhi di Calum è scritto nient’altro che il suo tragico destino. Non c’è futuro, in Aftersun. Ogni abbraccio, ogni bacio, ogni carezza è un addio. L’eternità di cui il film parla è quella, sconcertante, della morte.
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