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I sondaggi dicono che Giorgia Meloni contende a Matteo Salvini la leadership della coalizione di centrodestra (ammesso che un’armata Brancaleone possa essere definita “coalizione”). Ma se i suffragi ipotetici l’attestano ancora al secondo posto, non così il computo delle sciocchezze quotidiane via social, campo nel quale la Giorgia nazionale è almeno testa a testa col Capitano. L’ultima sparata in ordine di tempo paragona l’attuale fase del nostro Paese, in allerta pre-lockdown, alla Germania Est della Stasi, un regime di polizia in cui la delazione era all’ordine del giorno e le opinioni divergenti costavano il carcere, la tortura, l’esilio, la morte. È la tesi, cara agli estremisti no-mask, della “dittatura sanitaria”, l’ultima battaglia degli ultralibertari nostrani, la sacra alleanza di neofascisti, post-nazisti, incel, ultrafondamentalisti cattolici, no Euro, Gilet Arancioni, laureati all’università della vita ecc., accomunati dalla pretesa maldestra di contrabbandare il proprio narcisismo per una missione di salvezza e risveglio collettivo che deve più a Matrix e al complottismo spiccio degli anni ’90 (la pillola rossa, «the truth is out there») che agli insegnamenti del Redentore. Roba vecchia, insomma, ma che l’egolatria di questi anni social ha rinverdito, raggiungendo vette di grottesco involontario in cui comicità e orrore si mescolano senza soluzione di continuità (QAnon, la setta di pedofili guidata da Biden, Trump salvatore dell’umanità contro i burocrati del Deep State e via discorrendo).
A Giorgia Meloni e ai suoi adepti è opportuno ricordare cosa sia stata effettivamente la Stasi. Missione impossibile, giacché tocca sporcarsi le mani con – orrore! – un libro, oggetto al quale la maggior parte dei twittatori compulsivi con le tre stellette accanto al nickname è avversa. Si tratta di “C’era una volta la DDR”, edito da Feltrinelli nel 2002, della giornalista e scrittrice australiana (ma per lungo tempo a Berlino) Anna Funder. “Stasiland” era il titolo originario, azzeccatissimo, perché la Germania Est, prima che terra del socialismo nel cuore dell’Europa del piano Marshall, era soprattutto patria del più gigantesco, efficiente e spietato regime di polizia. La Funder, con gli artifici della moderna non-fiction, quel genere (o non genere) letterario al confine tra reportage giornalistico e romanzo, ripercorre la storia della DDR dalla sua fondazione (1949) allo smantellamento (1990) attraverso le peripezie di alcuni suoi abitanti. Miriam, per esempio, la ragazza ribelle che tenta di attraversare il confine a 16 anni e poi, adulta, perde il marito, Charlie, ammazzato di botte dopo un interrogatorio. Julia, che a causa di alcuni volantini vide la Stasi farle terra bruciata attorno, impedendole di lavorare, fidanzarsi, in una parola vivere. Herr Koch, zelante funzionario del Ministerium für Staatssicherheit, privato della moglie e del lavoro a causa del padre, colpevole di non condividere l’ortodossia di regime. Frau Paul, separata per anni dal figlioletto malato, cresciuto in un ospedale di Berlino Ovest. Klaus Jentzsch, aka Klaus Renft, del gruppo rock anti-establishment Klaus Renft Combo, al quale non fu rinnovata la licenza ministeriale (senza la quale era impossibile esibirsi) perché rifiutò di prendere le distanze dai membri più politicizzati della band. «Non esistete più», gli fu detto da una compagna del comitato ministeriale. Cancellati.
Accanto a queste ed altre voci polemiche non mancano quelle degli “integrati”, i fanatici del regime. Karl-Eduard von Schnitzler è un caso paradigmatico. Fu il più grande propagandista della DDR. Conduceva una trasmissione tv in cui vomitava tutto il suo livore socialista contro i decadenti costumi occidentali. Il crollo del Muro, come molti, lo sorprese, sprofondandolo tra le braccia nel nemico capitalista. La Funder lo dipinge come una macchietta strillante, ottusa, prigioniera dell’ortodossia, incapace di fare i conti con il presente. Un tratto che l’accomuna agli altri. Nel libro, vittime e carnefici sono rimasti ancora lì, nella DDR. Non hanno mai superato il trauma del Muro, della sua edificazione o del suo crollo. Sedici milioni di persone ibernate attraverso un sistema di controllo capillare basato sulla delazione. «La Stasi era l’esercito interno con cui il governo manteneva il suo controllo. Suo compito era sapere tutto di tutti, usando ogni mezzo. Sapeva quelli che erano venuti a farti visita, sapeva a chi avevi telefonato, sapeva se tua moglie ti metteva le corna. Era una burocrazia metastatizzata in tutta la società tedesco orientale: allo scoperto o al coperto, c’era dovunque qualcuno che riferiva alla Stasi su parenti e amici, ogni scuola, ogni caseggiato, ogni bar». Secondo i dati citati dalla Funder, una persona su 63 era un informatore della Stasi. Per capirci: la Gestapo ne aveva uno ogni duemila, il KGB uno ogni 5830.
I 300mila dipendenti produssero una mole immensa di documenti. La maggior parte dei rapporti andò distrutta nelle concitate fasi precedenti il crollo del Muro. Qualcosa, però, s’è salvato. Ad esempio, 15mila sacchi di frammenti. E qui s’innesta, nel racconto dell’immane tragedia, una nota poetica: il lavoro delle “donne del puzzle”, un team di donne (e uomini) che da anni lavora, a Norimberga, per ricostruire i dossier che riportano la vita privata dei cittadini della DDR. Una missione che più che un lavoro sembra una fatica di Sisifo: il direttore del Centro, intervistato dalla Funder, confessa candidamente che per completare l’opera servirebbero 350 anni.
In queste poche note, mi rendo conto, è difficile rendere appieno lo sgomento, il senso d’oppressione, il dolore, la follia della costruzione totalitaria che solo uno spirito sadico poteva chiamare Repubblica Democratica Tedesca. Occorre leggere il libro della Funder e farsi investire dal senso d’umiliazione, di sconfitta, di frustrazione, ingiustizia, rabbia che probabilmente regola a tutt’oggi le vite dei sopravvissuti, per averne una misura precisa. Ai sovranisti all’amatriciana dico che prima di strillare corbellerie come “dittatura sanitaria” o paragonare un DPCM a una spiata della Stasi, occorrerebbe conoscere un po’ di storia, se non altro per onorare la memoria di quelli che sul confine tra Bene e Male ci hanno lasciato non la libertà di fare aperitivo, ma la vita.
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