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Ai poli opposti dello spettro esistenziale si collocano due romanzi che più novecenteschi non si può: “Le braci” di Sandor Marai e questo “Confessione di mezzanotte” di Georges Duhamel. La tesi del primo è che nella vita non contino le parole ma le azioni, per cui ogni spiegazione, pure quella di un tradimento gravissimo, è superflua – e questo malgrado l’autore costruisca attorno al rendez-vous tra due vecchi amici (uno dei quali fuggito, anni addietro, con la moglie dell’altro) un climax implacabile. Nel romanzo di Duhamel, pubblicato per la prima volta in Italia da Ago, è cruciale la vita interiore, nella forma tumultuosa, assordante, di un gorgo di deliri, speranze, proiezioni, fantasie che cattura il protagonista senza che questi sia in grado di ricavarne alcunché.
È il Novecento, la modernità angosciosa, alienante, disumana, della quale Duhamel, che in qualità di medico aveva assistito ai massacri nelle trincee della Grande guerra, fu un critico spietato. Freud diceva: «L’io non è padrone nella propria casa»; più tardi Lacan dirà: «Penso là dove non sono; sono là dove non penso». Questo senso di spossessamento pervade Louis Salavin, uno degli antieroi della prosa moderna, cui Duhamel dedicò un ciclo di complessivi cinque romanzi. L’assurdo fa irruzione nelle pagine della “Confessione”, primo capitolo della saga, con un gesto semplice: scribacchino kafkiano (la burocrazia è il leviatano moderno), Salavin non resiste alla tentazione di toccare l’orecchio del suo capo. Viene per questo scacciato brutalmente e licenziato. Trascorre mesi sdraiato sul divano della casa che divide con la madre, o a vagabondare per le strade di Parigi alla ricerca di un lavoro che, in realtà, non gli importa granché di trovare.
Duhamel eleva la prosa a scienza esatta. Pochi tocchi e dalla sua penna scaturisce un mondo brillante e variegato. La capacità di produrre in scioltezza immagini vigorose, puntuali e non convenzionali è una qualità da grandi scrittori. Duhamel, malgrado sia un po’ dimenticato in patria, certamente lo era. La prima persona di Salavin è, come da titolo, la confessione spontanea a uno straniero incontrato una sera in un bar. L’affinità con “La caduta” di Camus è evidente, così come il legame di sangue di Salavin con “l’etranger” Meursault e soprattutto Roquentin, protagonista del sartriano “La nausea”. Salavin è un debole e un inetto, malgrado l’acuta consapevolezza di sé – o forse proprio in ragione di questa. Succube di una madre castrante, verso la quale nutre un attaccamento e insieme un risentimento che sfocia nella fantasia mortuaria, è ostaggio dell’attività frenetica dei propri pensieri, una costante auto-auscultazione da cui esce spossato, irrimediabilmente lacerato, sconfitto. La diagnosi è chiara: «Io non so scegliermi. Ogni pensiero che viaggia trova asilo dentro la mia anima. Ogni seme che cade sul mio essere può germogliarvi. Dove sono io in tutto questo? Chi sono io in questa folla? Può esserci per me qualche felicità tra questi mille demoni nemici? Come riconoscermi, nominarmi, chiamarmi, tra tutti questi volti?»
«Sono vasto, contengo moltitudini», diceva Whitman. Salavin non è un artista, non è un mistico e neppure un caso di possessione demoniaca. Un’energia lo pervade, come la corrente di un fiume, ma è tutto. Al confessore che pazientemente ascolta il suo lamento spiega di non avere nulla di straordinario da raccontare. «Tutte le mie avventure sono accadute dentro di me». È, per sua stessa ammissione, un uomo «fatto di niente», trascina il fardello di una costante tensione psicologica che alterna momenti di esaltazione a cupe vampate di risentimento. Vittima prediletta di questi deliri è il suo unico amico, quell’Octave Lanoue la cui unica colpa è di esprimere una felicità paragonabile a quella «di una pietra che cade nello spazio per l’eternità». Salavin a un certo punto si illude che l’amore per la dolce e mansueta Marguerite possa salvarlo, ma la fantasia di uno stupro consumato ai danni della moglie di Lanoue lo convince definitivamente della propria mostruosità. Ecco perché, già pagine prima, aveva parlato di sé come di una bestia! Di fronte a tanta indegnità non resta che fuggire, perdersi nelle strade di Parigi, le cui architetture Duhamel descrive con abbondanza di metafore organiche, quasi che la città fosse dotata di viscere e una propria volontà. Il Pont d’Austerlitz, il Jardins des Plantes, Rue Mouffetard, Rue du Pot-de-Fer compongono una topografia anzitutto emotiva, in combutta con gli oggetti quotidiani paiono di volta in volta, narcisisticamente, ostacolare o agevolare la felicità di Salavin, in ossequio all’impressione di forze ineluttabili che agiscono al di fuori del suo controllo.
Che ne sarà del nostro eroe? Ma è davvero importante? Torniamo all’assunto iniziale, al confronto con Marai. «Che importanza hanno le mie azioni, se tutti i miei pensieri non ne sono che la sconfessione e la derisione?» Salavin è prigioniero di se stesso, è l’uomo contemporaneo gravato dal fardello dell’Io, la cui pretesa di onnipotenza è minata dal vasto mare dell’inconscio. Quando l’onda si ritira, scopre «fondali orribili e miserie», l’ordinaria mediocrità umana, la quale Salavin è incapace di accettare.
Confessione di mezzanotte
Autore: Georges Duhamel
Traduttore: Caterina Miracle Bragantini
Editore: Ago Edizioni
Anno edizione: 2023
Pagine: 144, rilegato
EAN: 9788894755404
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