“Persona” di Ingmar Bergman (1966)

Bibi Andersson e Liv Ullman in un celebre fotogramma di Persona, di Ingmar Bergman (1966). Le due attrici sono davanti a uno specchio, Ullman accarezza la testa di Andersson

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Rompicapo per generazioni di critici e teorici, Persona di Ingmar Bergman (1966) è un melodramma raggelato che si presta a molteplici letture, nessuna delle quali esauriente. La grande attrice di teatro Elisabeth Vogler (Liv Ullman) sprofonda in uno stato di prostrazione e mutismo dopo aver portato in scena una pièce sull’Elettra di Sofocle. La psichiatra che l’ha in cura, prima di affidarla all’amorevole infermiera Alma (Bibi Andersson), descrive la sua patologia come una posizione morale. «Tu insegui un sogno disperato, questo è il tuo tormento. Tu vuoi essere, non sembrare di essere». E poiché ogni parola e ogni gesto sono un inganno, meglio tacere, meglio l’apatia. La spiegazione arriva nei primi venti minuti del film. Bergman liquida così Freud e il problema del “significato”. Non sapremo mai se la dottoressa abbia ragione o meno. Può darsi che nella sua tesi ci sia un fondo di verità, ma questa non esaurisce la bellezza enigmatica di Persona, la sacralità del suo mistero che è il mistero del grande cinema.

Al momento di girare il film, Bergman era in una fase cruciale della propria carriera. Nel gennaio del ’63 era stato nominato direttore del Teatro Drammatico Reale. L’incarico si era rivelato estremamente gravoso, le continue cure e attenzioni necessarie per riorganizzare l’intera compagnia avevano condotto il regista al collasso fisico: doppia polmonite e avvelenamento acuto da penicillina. La sceneggiatura di Persona nacque in ospedale, per la necessità, spiegò Bergman, di non perdere contatto con il processo creativo. Le prime note del film risalgono al 12 aprile 1965: «Depressione e tristezza e lacrime – che si trasformano in esplosioni potenti di gioia. Sensibilità nelle mani. La fronte ampia, severità, occhi che osservano la [illeggibile] infantilità».

C’è (quasi) tutto in questo appunto. Persona è anzitutto un film di primi piani, uno studio di volti. Il titolo fa riferimento alla locuzione latina dramatis personae, la maschera del dramma antico. In un cottage di campagna, luogo prescelto per la cura, va in scena il duetto tra la nevrotica attrice e l’ingenua infermiera. L’ostinazione con cui Elizabeth Vogler (cognome ricorrente nella filmografia bergmaniana, quasi archetipico) è decisa a non recedere dal proprio mutismo confonde Alma (“anima”). Il rapporto tra le due degenera in una feroce lotta per la supremazia spirituale. Il silenzio inquietante di Elizabeth la pone in una posizione di vantaggio, così come la sua provenienza di classe. Alma è irresistibilmente affascinata. «Vorrei essere come te», confessa la ragazza. Un tema caro a Bergman è quello dell’intangibilità dell’amato. Una distanza siderale separa l’amante dall’oggetto del suo desiderio, sia esso Dio, una sorella, una madre. L’amato si richiude in un silenzio altero, crudele, rispetto al quale ogni struggimento (ogni preghiera) così come ogni ribellione sono vani. Il contatto fisico è impossibile (il cavaliere Blok nel Settimo sigillo vorrebbe «toccare Dio») o insufficiente. Alma ed Elisabeth si tengono per mano, si accarezzano, conoscono una prossimità ai limiti dell’attrazione saffica, ma la scorza di Elisabeth rimane impenetrabile, il suo mistero celato dietro il sorriso ora dolce ora sarcastico. Nel confronto, la maschera di entrambe si allenta, cede. La sensibilità dell’artista, lungi dall’essere indice di superiorità morale, si rivela crudeltà, squallido vampirismo. In un momento di terrore, di fronte alla possibilità che Alma, esasperata, le scagli addosso acqua bollente da una pentola, Elisabeth urla: «non farmi del male!». A quanto pare, non tutto è stato soffocato dall’assurda apatia che – parola della psichiatra – l’attrice ha elevato a condizione di vita, non l’istinto di sopravvivenza. Basterà a riportare Elizabeth alla vita vera?

Alma indossa la maschera della positività, della normalità (è fidanzata, ama il suo lavoro), dell’umiltà della ragazza del popolo. Compensa con un profluvio di parole il silenzio di Elisabeth, ma la sua vitalità è più inquieta di quanto non sembri. Scopriamo che in passato ha partecipato a un’orgia con due sconosciuti su una spiaggia, a seguito della quale è rimasta incinta e ha dovuto abortire. La confessione è spontanea e al tempo stesso estorta dall’ipnotico mutismo di Elisabeth. La scoperta di una lettera indirizzata alla psichiatra in cui l’attrice sbeffeggia la sua ingenuità spinge Alma alla rabbia e alla disperazione. In un crescendo di conflittualità, isterismi, ripicche e violenza, vittima e carnefice si scambiano continuamente di posto.

Oltre che un film di volti, Persona è un film di specchi. Il tema del doppio è condotto al parossismo, la confusione dell’identità. Sotto lo sguardo dell’altra che sembra incoraggiarla, indirizzarla, istruirla (uno sguardo “registico”), Alma consuma un amplesso con il marito di Elisabeth, un Gunnar Björnstrand in versione nerocchialuta. «Sì, sono Elisabeth», si arrende lei. Ma è successo veramente? Il film vive una specie di sospensione onirica, è impossibile stabilire se certe cose accadano realmente o meno. Bergman non offre punti di riferimento. La struttura di Persona è tutt’altro che lineare, si compone di raddoppi e dislocazioni temporali. Il bianco e nero di Sven Nykvist avvolge tutto in una patina spettrale. In una sequenza cruciale del film, Elizabeth e Alma sono sedute al tavolo del soggiorno. L’alba si avvicina. Alma racconta a Elizabeth di avere notato la somiglianza che le lega. «Credo che riuscirei anche a trasformarmi in te […] interiormente, se facessi uno sforzo. Ma saresti capace anche tu di trasformarti in me, non è vero? Però la tua anima è troppo grande, e cercherebbe di evadere». Lentamente, la ragazza scivola nel sonno. Elizabeth le sussurra di andare a letto. È la prima volta che la sentiamo parlare. Alma obbedisce. Poco dopo, raggiunge la ragazza in camera. Le due sono in piedi davanti a uno specchio. Elizabeth abbraccia Alma da dietro e le solleva i capelli sulla fronte, evidenziando la loro somiglianza. Il giorno dopo, Elizabeth negherà di avere fatto alcunché. Non abbiamo ragioni per sostenere che non stia dicendo la verità, malgrado l’espressione lievemente ironica sul suo volto. E dunque?

Per comprendere i moventi di Elizabeth può essere utile esaminare il suo passato. Ha abbandonato il marito e il figlio, del quale arrivò a desiderare che nascesse morto. Apprendiamo la storia da un monologo di Alma, che parla per conto di Elisabeth. La scena è ripetuta due volte, da angolazioni distinte: primo piano di Alma che racconta, reazione di Elisabeth. Al termine del confronto campeggia sullo schermo un ibrido inquietante, un volto in cui si congiungono le metà del viso di Elizabeth e Alma. La giovane infermiera si ribella al pericolo di finire risucchiata, assorbita, ricordando ad alta voce il proprio nome, la propria funzione, i propri desideri, picchiando i pugni sul tavolo, disperandosi, infine arrendendosi, cedendo il braccio alla vampira Elizabeth che si ciba del suo sangue, infine schiaffeggiandola e costringendola, prostrata nel suo letto d’ospedale, a sussurrare una parola: “nulla”.

Può essere, come ha sostenuto Susan Sontag in un celebre saggio, che Alma ed Elizabeth rappresentino «due parti mitiche di un unico “io”: la persona corrotta che agisce (Elisabeth) e l’anima ingenua (Alma) che naufraga a contatto con la corruzione». Pur ammettendo una certa rilevanza del monologo della psichiatra, Sontag ha messo in guardia dal tentativo di ridurre Persona alla sola dimensione psicologica. La dimensione psicologica è presente, ma non esaurisce il film. Neppure quella simbolica, però. Il punto è che Bergman mette tutto sullo stesso piano – cinema, vita, allucinazioni, sogni, deliri, storia. In generale, è difficile dubitare della verità di ciò che vediamo, anche se ciò che accade sembra paradossale o impossibile. Per questo il cinema è, potenzialmente, il luogo di una perenne ambiguità. Bergman la asseconda eliminando tutti gli artifici visivi che permettono allo spettatore di stabilire lo statuto di verità di una sequenza. Persona è un film-oggetto, un’opera piena di trovate che sabotano la suspension of disbilief. Bergman ci tiene a informarci dell’artificiosità della costruzione cinematografica. Apre il film con le immagini di una lampada ad arco, un proiettore che si aziona, una serie di rapide diapositive, pantomime del cinema delle origini, un agnello eviscerato, una mano inchiodata a un asse di legno, persino un pene eretto. Vediamo poi i volti di Alma ed Elisabeth sovrapposti e fuori fuoco, un ragazzino che guarda in camera, allunga la mano, tocca lo schermo. È il figlio di Elisabeth? Forse, non è importante, la figura può essere intesa come metafora dello spettatore costretto a una forzata separazione dall’immaginario, impossibilitato a realizzare il sogno di una fusione con il linguaggio. Il cinema come limite invalicabile pena la sua e la nostra dissoluzione. Bergman torna sulla questione del linguaggio più volte. In chiusura, il film mostra la troupe alla maniera di un Godard; poi il proiettore che si arresta, la luce che si spegne, il buio primigenio. Nel mezzo, la pellicola che si strappa e brucia, quasi un cedimento strutturale del film sotto il peso dell’insostenibile angoscia sul volto di Elisabeth e, insieme, la sottolineatura esplicita di una cesura “morale” (Alma ha scoperto la lettera di Elizabeth, lascia di proposito un coccio di bottiglia in terra così che l’altra si ferisca). Nel vuoto del linguaggio emergono, come detriti dell’inconscio, alcune immagini del prologo. Lentamente il film riprende il fuoco corretto, ritorna ad essere, riacquista la sua imperturbabile enigmaticità. Elizabeth e Alma vestono entrambe di nero, leggono. Alma ha bisogno che Elizabeth parli, che dica una cosa qualsiasi, che pronunci anche solo una parola. La dissoluzione del linguaggio le causa sofferenza. Per quanto menzognera, sembra suggerire Bergman, la maschera ci è necessaria. Senza, un vuoto spaventoso ci annichilirebbe.

È paradossale che a costeggiare questa dissoluzione mortale siano due donne. La donna è per definizione datrice di vita. In Bergman, la maternità assume connotati arcaici. Elisabeth e Alma sono entrambe due madri mancate. La prima ha scelto di dare alla luce un figlio per colmare una lacuna nel suo curriculum esistenziale, il ruolo di madre, ma non è capace di amare il frutto della sua stessa carne; la seconda ha abortito. Nel rapporto tra le protagoniste rivive quello delle due sorelle del Silenzio, capitolo conclusivo della trilogia omonima. Morbosità, un figlio trascurato, una lotta per non soccombere sullo sfondo di un mondo in rovina, la comunicazione impossibile. Il Silenzio lega una esplicita carica erotica (gli squallidi amplessi di una delle due sorelle, la masturbazione dell’altra, probabilmente lesbica) a un imprecisato e kafkiano conflitto. È il film più astratto di Bergman. In Persona il dramma erotico è sfumato per una specie di inibizione, mentre i riferimenti alla violenza contemporanea sono più precisi (i bonzi in fiamme, l’Olocausto). Bergman non è mai stato un regista politico. In Persona fa un uso “estetico” della violenza. Il cinegiornale e la foto del bambino nel ghetto di Varsavia rappresentano il correlativo oggettivo (su scala globale) della violenza spirituale (privata) che Elizabeth e Alma si infliggono vicendevolmente. Queste immagini consentono, inoltre, una lettura esistenzialista del film: Elizabeth come simbolo di un’umanità alienata, il mutismo come unica risposta all’orrore dell’esistenza. Proseguendo il gioco di parallelismi con altri film di Bergman: in La vergogna una guerra anonima irrompe nella quieta solitudine di una coppia di musicisti, mandando in frantumi l’identità di entrambi; Sussurri e grida è un’altra storia di sorelle-coltelli, di martirio fisico e psicologico, di relazioni anaffettive, indifferenza, forse il film più violento di Bergman, dominato dai toni cupissimi di un rosso sangue. Tra le protagoniste, sempre Liv Ullman, che a dispetto del viso aperto, luminoso, bellissimo, è capace di vera malignità.

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