Una donna naturale. “Tornare a galla”, Margaret Atwood (1972)

Margaret Atwood da giovane

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La civiltà si erge sul pelo d’acqua della coscienza. Le gelide correnti nelle profondità dell’Es negano le ragioni della logica. Sono una minaccia nel senso batagliano (da Bataille) del termine. Per il bene dell’ordine costituito, della produzione, occorre che rimangano sepolte. L’eroina di Tornare a galla (Surfacing, 1972) di Margaret Atwood intraprende un viaggio iniziatico all’insegna di un primitivismo misticheggiante che smaschera l’insufficienza del linguaggio e le pretese della civiltà, inclusi certi miti di emancipazione femminile. 

Comincia tutto con la scomparsa del padre, botanico in una regione sperduta del Québec. L’innominata protagonista si mette in viaggio con il compagno, Joe, e una coppia di amici, Anna e David. Giunta sul posto, fruga la vecchia casa di legno sul lago alla ricerca di indizi sulla destinazione del padre, più in generale di tracce di una eredità genitoriale che suona anacronistica, quasi incomprensibile, visti i tempi. Il romanzo fu pubblicato nel pieno di quella evaporazione del padre di cui Lacan aveva parlato a proposito del Sessantotto. Dunque, i compagni di viaggio della ragazza, «secondo la prassi», hanno liquidato i genitori ciascuno a modo proprio: «Joe non parla mai di sua madre e suo padre, Anna dice che i suoi erano delle nullità, e David i suoi li chiama ‘i Maiali’». La protagonista è fuggita dalla casa natia anni addietro, per – racconta – sposare un uomo da cui ha avuto un figlio che ha abbandonato. «Si trova meglio con mio marito, il mio ex marito». Del matrimonio ha informato i genitori per lettera. Alla madre, sul letto di morte, ricorda di aver preannunciato la sua assenza al funerale. L’ammissione di un’infanzia felice, estranea alla ferocia della guerra se non per tramite dei racconti del fratello più grande, contrasta con la messa a fuoco di dettagli che mostrano il faticoso percorso esistenziale di questa famiglia di inglesi trapiantati tra i quaccheri di lingua francese del Québec, che a vederli passare si segnavano a vista – forse per i pantaloni lunghi della madre, chissà. I libri aiutano a precisare meglio il contesto. Tra le letture preferite del padre, cui spetta un angolo speciale in una casa in cui proliferano gialli, romanzi di intrattenimento e manualistica tecnica, troviamo gli scritti di Robert Burns, la Vitadi Boswell, le Stagioni di Thompson, le antologie da Goldsmith e Cowper. Ovvero: razionalisti inglesi del ‘700 sfuggiti «alla depravazione della Rivoluzione industriale», amanti dell’aurea mediocritas, la vita equilibrata. L’identikit dello scomparso, quindi, è quello di uno scienziato, un uomo ordinato, compositore di epigrammi, amante della logica, che non crede in Dio e legge la Bibbia anglicana come opera di valore letterario. La scelta dell’isolamento, inaspritosi dopo la morte della moglie, è coerente con il rifiuto dell’irrazionalità del genere umano e l’idea di emulare non tanto la vita da agricoltore del padre quanto «quella dei primissimi coloni che arrivarono quando non c’era nient’altro che la foresta» e nessuna ideologia o civiltà preesistenti. 

Per compagna di vita, un uomo così non poteva che scegliere una donna che nei suoi diari segnava solo il tempo e i lavori svolti, niente pensieri o sentimenti. La narratrice, nelle prime pagine del romanzo, offre del ménage genitoriale un’immagine suggestiva: «badavano alle loro faccende chiusi al sicuro dietro una parete traslucida di gelatina, mammut congelati in un ghiacciaio». Incubazione e trasparenza tornano in un’altra immagine di grande potenza. Sempre nelle pagine iniziali (perché in Tornare a galla la chiave di decrittazione è subito in bella vista, sotto i nostri occhi), la protagonista rievoca l’annegamento del fratello, scivolato per errore nel lago. Dice di ricordare l’episodio ma – piccolo particolare – al momento dell’incidente non era ancora nata. È suo convincimento che il nascituro possa guardare il mondo attraverso la pelle della pancia materna come un ranocchio attraverso il vetro di un barattolo. Questo passaggio dice molto sull’affidabilità della narratrice e sulle sue ossessioni. Proseguendo nella lettura, scopriremo che la ragazza combatte contro un trauma sepolto che infittisce il suo racconto di falsi ricordi e metafore oscuramente allusive. L’immersione in un lago alla ricerca di antiche pitture rupestri che il padre aveva incominciato a studiare poco prima di scomparire, contribuisce a svelare il mistero. Sul fondale si agita «una scura sagoma ovale». Chi è questa figura familiare, indistinta ma dotata di membra e occhi? L’emersione della ragazza coincide con la presa di coscienza definitiva. Il figlio che ha abbandonato non era un bambino, avrebbe potuto esserlo se lei gli avesse concesso di nascere. L’uomo a cui nel corso del racconto accenna più volte come all’ex marito in realtà era l’amante, forse un professore di disegno, sposato, di cui era rimasta incinta. L’aborto (clandestino) ha segnato la protagonista nel profondo. Per proteggersi, ha dovuto impiegare la sua immaginazione di artista (è illustratrice), inventare «un album fittizio», falsificare i ricordi «come passaporti». La tecnica la spiega lei stessa a pagina quattordici, quando, sull’orlo delle lacrime, addenta un cono gelato: anestesia. «Se qualcosa ti fa male, inventati un altro dolore». Il divorzio, il bambino abbandonato, il fratellino annegato rientrano in questa complessa diversione psichica, un meccanismo nelle intenzioni salvifico che in realtà produce nella ragazza una forma di anedonia, un blocco emotivo, come una distanza dal mondo, la percezione di essere divisa, tagliata in due in modo irreparabile, di essere la metà sbagliata, «qualcosa di insignificante come un pollice mozzo, inerte». 

La risalita dalle profondità del lago apre la strada a un complesso recupero, una dolorosa conciliazione con il mondo che passa per una regressione animalesca, mitica, il tentativo di superare quel senso di frantumazione prodotto dal linguaggio, di liberare finalmente un Io selvaggio, dominato da un istinto di comunione totale con la natura. Suggestioni sciamaniche infondono nella protagonista una forza che sembra provenire dalle antiche divinità del lago, superiori al problematico e ipotetico Gesù, così umano, troppo. La ragazza fa l’amore con il burbero Jim una notte di luna piena, immagina di concepire un essere metà uomo metà animale. Il nuovo seme scaccia la morte che ha instillato nel suo ventre la civiltà degli uomini, il pragmatismo ipocrita del maschio che tiranneggia il corpo della donna e riduce la vita sgradita a una verruca da eliminare. «Avrei potuto dire di no, ma non lo feci; questo mi trasformò in una di loro, un’assassina». “Loro”, nel resto del romanzo, sono gli americani, i «porci yankee», come li chiama David, che prosciugano le risorse naturali del Canada e distruggono il paesaggio in nome della supremazia tecnica, del progresso. Nel romanzo della Atwood, l’aborto si configura come uccisione, omicidio, una violazione dell’ordine naturale (sacro) che trova il suo corrispettivo nell’imperialismo a stelle e strisce. Nel contesto del romanzo, “americano” funziona non solo come sostantivo, ma anche come aggettivo. Pure certi canadesi possono essere “americani” nel senso di contaminati da un’ideologia materialista e mortifera. David, ad esempio. Gli tocca la parte del buffone, del nazionalista antifemminista e misogino. Tenta un approccio sessuale aggressivo nei confronti della protagonista, e quando lei lo respinge, lui la ingiuria («pezzo di fica frigida di terza categoria»). La ragazza, grazie alla forza di cui è provvista dopo l’immersione purificatrice nel lago, scorge l’impostura e l’inconsistenza di David. «L’americano d’accatto si allargava a chiazze su di lui, come la scabbia o il lichene. Era infestato, contraffatto, e io non potevo aiutarlo». A proposito di infezione, il romanzo si apre sull’immagine delle betulle bianche che muoiono per colpa di una malattia che viene dal sud, anche questo un riferimento alla contaminazione yankee che distrugge l’ecosistema e le antiche tradizioni locali. 

La questione del patriarcato (e del nazionalismo) non si esaurisce con David. Jim, l’altro maschio del gruppo, è frustrato e aggressivo perché lei ha rifiutato la sua proposta di matrimonio e non lo ama. Jim, però, è diverso da David. Artista fallito, è un uomo taciturno come «il bufalo sulla moneta americana da 5 cents», campione di «una razza un tempo dominante e ora in pericolo di estinzione». È dotato di una sua dolcezza, una sensibilità. Alla fine, la protagonista lo sceglie come padre del figlio che porta in grembo. Jim «non è un americano […], non è nulla, è formato solo a metà, ed è per questo che posso fidarmi di lui».

La conclusione potrebbe sembrare un compromesso al ribasso rispetto al proposito, formulato all’inizio della terza parte del romanzo, di partorire il bambino «come un uovo», naturalmente, e allevarlo come un dio, senza insegnargli neppure una parola. Il fatto è che dopo aver rifiutato i gusci inutili della civiltà, dopo essersi spogliata dei vestiti, aver girato gli specchi, rifiutato il pettine, mangiato radici sporche di terra, giocato con le immagini della mente e smantellato il linguaggio, dopo aver assaporato fino in fondo, fino alle lacrime (finalmente!) il senso della perdita, al punto da intonare un atto d’accusa infantile verso i genitori “colpevoli” di essere morti, e averli invocati, madre e padre, e infine intravisti come fantasmi (Macbeth) senza essere riconosciuta, perché la comunione mistica con la natura l’ha trasformata in un’entità che non è né albero né animale, ma «la cosa entro cui gli alberi e gli animali si muovono e crescono», un luogo – dopo tutto questo, la protagonista avverte che le antiche divinità la stanno abbandonando, che non le rivedrà mai più. Il sortilegio è durato il giusto, il tempo di consentirle di acquisire piena coscienza di sé. A questo punto occorre tornare nel mondo, per quanto sgradevole sia. Il pericolo, riflette la ragazza nel penultimo capitolo, è «l’ospedale o lo zoo», ovvero i luoghi di contenzione in cui finiscono quelli che non si adeguano ai dettati del Grande Altro sociale. «Non crederebbero mai che è soltanto una donna naturale, allo stato di natura, quella se la immaginano come un corpo abbronzato su una spiaggia coi capelli schiariti che sventolano come un foulard; non questo, la faccia incrostata di sudiciume e striata la pelle annerita e piena di croste, i capelli come un tappetino da bagno arruffato in cui sono impigliati foglie e rametti. Un nuovo genere di paginone centrale». Il passaggio decisivo è questo: evitare di essere una vittima. Come? Accettando il potere creativo e distruttivo insito in ciascuno di noi, recuperando la parola, aprendosi alle sue possibilità. Tornare a galla è scritto dalla Atwood mostrando una insofferenza verso i limiti tradizionali del linguaggio romanzesco, alternando nelle tre sezioni che compongono il libro present tense e past tense, forzando il ritmo, la punteggiatura. La pretesa di oggettività della narrazione si sfalda sotto il peso dell’esperienza interiore, allucinata, stratificata, complessa, della protagonista. Eppure, nel mondo, parlare si deve. Il linguaggio verbale è un’approssimazione necessaria, un artificio fragile di cui non possiamo fare a meno. Jim, che sul finale compare per riprendere la protagonista e portarla a casa (Anna e David, cinici e infelici, “americanissimi”, sono andati), è «un mediatore, un ambasciatore». Non è chiaro se offra la cattività o una nuova libertà. Certo è che «se vado con lui dovremo parlare per forza». È probabile, avverte la protagonista, che lo sforzo sarà vano, che la storia terminerà con una sconfitta. Ma vale la pena tentare. La logica umana è fittizia, ma fuori dal perimetro della razionalità c’è il terrore insensato, la morte. 

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