Le emozioni sono antropomorfe. Hanno la faccia dei nostri genitori, dei nostri amici, del tizio incrociato per strada mentre corri al lavoro. Contrai la bocca in una smorfia di scazzo e ti viene in mente tuo padre quando fa lo stesso. Di più: ti senti tuo padre. Se hai il tempo di fermarti a pensare – a sentire – scopri tante cose.
Esercitiamo un controllo su quello che sentiamo? No. E su come sentiamo? Io credo di sì. Io mi impongo su me stesso, scelgo, batto l’istinto non sul tempo – impossibile – ma sulla distanza. Perché l’istinto non ha sempre ragione. E poi non siamo animali, pensiamo, riflettiamo, ne abbiamo facoltà. Dunque perché non sfruttarla per fermarsi un attimo prima della ripicca, del capriccio, dell’orgoglio?
Facile non è. Pure perché l’istinto ha i muscoli affilati da anni, secoli, di sedimentazioni. Famiglia, scuola, amici, in ogni ambiente che frequenti le persone ti scaricano addosso le loro nevrosi. E dunque le tue reazioni pure, non meditate, non sono mai realmente pure, non sono mai realmente immeditate. Le hanno meditate altri prima di te. Una specie di (in)coscienza collettiva ci avvelena.
Io, quando sento di assomigliare a mio padre per le cose belle, sono contento. Quando canticchio a bassa voce perché non sono abituato a usarla, la voce, ed ho paura di stonare; quando guardo J. con la stessa tenerezza con cui lui guarda mia madre; quando tiro al pallone un calcio di esterno collo con tutta la calma del mondo, snodando la gamba attorno al ginocchio. Quando assomiglio a mio padre nelle cose brutte, protesto. Quando faccio la vittima, mi agito per nulla, divento meschino. Mi ribello. Io sono io, mi dico, non sono questo qui, non mi sento realmente così. Non è un obbligo sentirsi così, mi dico. E’ solo quello che ho imparato.