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Il regalo dei cinquant’anni di Elisabeth Sparkle (Demi Moore) è il licenziamento. Ex stella di Hollywood, premio Oscar con tanto di nome sulla Walk of Fame, viene brutalmente accantonata dal produttore del suo show televisivo sul fitness perché si sa, a Hollywood se hai cinquant’anni e sei una donna, automaticamente sei pure finita. Per colmo di sfiga, la poveretta ha un incidente. In ospedale, un giovane medico, vedendola affranta, le consegna una pennetta USB avvolta in un biglietto: “it changed my life”. Si riferisce alla sostanza che dà il titolo al film, un siero che, iniettato, consente di sdoppiarsi in una versione migliore di se stessi – o almeno questa è la promessa contenuta nell’elegante e stilizzato video promo narrato da una voce misteriosa. Elisabeth, titubante, sceglie di aderire al “programma”. Per partenogenesi, diventa Sue, che ha il volto e il corpo e le movenze sensuali di Margaret Qualley. Le due non possono coesistere: se una è sveglia, l’altra deve dormire. L’alternanza, ogni sette giorni, non ammette eccezioni. Ben presto, Sue contravviene alle regole. Smaniosa di vivere la propria vita patinata di ventenne a Hollywood, trascura di assicurare il nutrimento puntuale alla “Matrice”, prelevandone in compenso abbondanti dosi di liquido spinale, prezioso stabilizzante.
Quando Qualley è in scena, ogni cosa è avvolta da una luce irreale. Sue è una donna di plastica in un mondo di plastica, la vera Barbie, immersa in uno scenario di levigata lucentezza pornografica. Perfetto e adeguatamente lubrificato, il corpo di Sue è un prodotto simile allo squalo in formaldeide di Hirst, una superficie levigata, lucida, priva di asperità, su cui lo sguardo scivola rapito dallo sconcertante vuoto che le forme perfette nascondono. Il montaggio che, in una sequenza, alterna Sue nuda a un tacchino eviscerato dalla sempre più avvizzita e folle Elisabeth è piuttosto eloquente.
La creatura si ribella alla Matrice, manifestando un crescente grado di autonomia. La Matrice risponde con ripicche sempre più furiose, inconsapevole del danno che produce anzitutto a se stessa. “You are one”, dice la voce nel promo, “you can’t excape from yourself”. La società dello spettacolo, che premia gli uomini sulle donne e i giovani sui vecchi, è una società prestazionale, e la società prestazionale abolisce (come rileva Han) la dialettica servo-padrone hegeliana. Ciascuno è il tiranno di se stesso. Lo sdoppiamento cellulare della protagonista metaforizza questa pratica di auto sfruttamento che il capitalismo avanzato esige come tributo per una felicità comunque illusoria. Elisabeth, pervicacemente, si annienta perché la più giovane e desiderabile Sue possa prosperare.
Il film di Coralie Fargeat condivide con altre pellicole horror di questo 2024 un certo protagonismo femminile, il citazionismo e la fascinazione per gli anni ’80. Come Maxine di Ty West, The substance racconta l’ossessione per la fama tipica dei nostri anni, la celebrità come una droga che allenta le difese morali e conduce all’auto annichilimento su una scintillante ribalta che ha la consistenza di un incubo o un’allucinazione. Il riferimento principale è il body horror, ma lo spettro delle citazioni è più ampio. Kubrick è ovunque. Certi violenti contrasti cromatici, i pavimenti con motivi geometrici stile Shining. Il “viaggio interiore” di Elisabeth dopo essersi iniettata il siero ricorda quello di Bowman in 2001: Odissea nello spazio, richiamato anche dalla soundtrack nel finale (Also Spracht Zarathustra). La violenza psicologica “istituzionale” dello showbiz, incarnato dal sulfureo produttore Dennis Quaid (bravissimo), rimanda ad Arancia meccanica. Nel penultimo stadio della sua trasformazione, Elisabeth è straordinariamente simile all’inquilina nella stanza 237 dell’Overlook Hotel, che Jack Nicholson abbraccia credendo di stringere una giovane e bellissima ragazza. A proposito, se Sue sembra uscita da Showgirls, il freak (“Monstro Elisasue”) che genera iniettandosi lei stessa un residuo di “substance” è The elephant man miscelato con Sloth dei Goonies e uno di quegli aborti carnosi del Society di Brian Yuzna, con cui l’ultima parte del film condivide un certo tono delirante e grottesco. Poteva mancare Cronenberg? L’ibridazione genetica mostruosa rimanda alla Mosca, con Sue che marcisce e perde i denti. Le teste e i corpi esplodono come in Scanners. Nel finale ipersplatter c’è anche un pizzico di Dario Argento. L’arto amputato da uno spettatore dello show di Capodanno, a cui Elisasue presenzia agghindata di tutto punto, decisa a non rinunciare alla propria grande occasione, ricorda la tortura di Veronica Lario in Tenebre (la soundtrack, per un attimo, scimmiotta i Goblin). Lo spruzzo di sangue si trasforma in una pioggia stile Tarantino, anche se la scena ricalca soprattutto Carrie di De Palma.
Consumato il martirio a beneficio di un pubblico feroce come quello che, armato di forconi, dava la caccia a Frankenstein inveendo contro il mostro, ciò che resta di Elisabeth, poco più di una maschera stravolta dal dolore, si trascina fino alla sua stella sulla Walk of Fame, dove letteralmente si dissolve. L’ibrido mostruoso, incongruo, irriconoscibile in cui Elisabeth e Sue si fondono è, in un certo senso, la realizzazione letterale di certe fantasie maschiliste, una sorta di iperdonna, il prodotto orripilante dell’azione del patriarcato sul corpo femminile, dell’introiezione di tutto un sistema di valori disonesto e spregevole, per cui una donna deve essere giovane, avere le misure giuste e sorridere sempre, stop. Nel tentativo disperato di compiacere ancora una volta gli spettatori, di obbedire più o meno inconsciamente alla legge fondamentale dello showbiz per cui occorre dare al pubblico ciò che il pubblico vuole, Monstro Elisasue rigurgita un seno. Fuoricampo, riascoltiamo la voce di due direttori del casting che, commentando la performance di una ballerina candidata a sostituire Elisabeth, affermano sia un peccato che la ragazza non abbia le tette al posto del naso.
The substance è chiaramente un film con un’ambizione politica. “This is network tv, not a fucking charity!”, esclama il disgustoso producer Quaid, che sintetizza tutta la volgarità di una cultura ossessionata dal denaro. The substance non è un film moralista, tutt’altro, è irriverente e cattivo come nello stile del New French Extremity. Non è il capolavoro che la pubblicistica pretende che sia, però funziona, altroché. Il citazionismo è una scelta programmatica e anche un limite. Probabilmente l’omaggio al cinema dei padri doveva essere ribaltato nel finale dissacratorio, all’insegna di un’ironia acida al ritmo di death metal. Lo sguardo sessualizzante della telecamera sul corpo di Qualley è una chiamata in correità dello spettatore. La denuncia, però, non è sufficientemente potente. The substance piace (se piace) perché è divertente, perché scorre tutto in superficie, e pazienza per la resa diseguale, l’impressione di un caos non perfettamente domato e certe bizzarre incongruenze (Sue è in grado di ricucire perfettamente una spina dorsale squarciata; la vecchia e claudicante Elisabeth trascina come un fuscello la dormiente se stessa più giovane). Della protagonista non sappiamo nulla, se non che è una specie di Jane Fonda in disgrazia. Niente marito, niente figli, neppure un cane o una foto alla parete che non sia la propria. Come in tanti, troppi horror recenti (I saw the tv glow, Longlegs) i personaggi danno l’impressione di essere lì solo per portare avanti la trama. Dal comportamento del suo doppio deduciamo che Elisabeth ha l’animo di una stronza narcisista, ma probabilmente è una cosa che si può dire di chiunque abbia vinto un Oscar.
La stilizzazione di caratteri e situazioni allude alla natura archetipica del racconto. Elizabeth e Sue sono Dorian Gray, il dottor Jekyll e Mr. Hyde, Cenerentola che non vuole abbandonare la zucca nonostante la mezzanotte sia scoccata da un pezzo. La fotografia di Benjamin Kracun insiste su toni di rosso, blu e giallo piuttosto accesi e luci di un bianco innaturale. Il grandangolo deforma le prospettive. Open space sterminati, lussuosi interni lynchiani e skyline irreali accentuano il senso di smarrimento, comunicando una paradossale sensazione di claustrofobia. Ogni spazio pare un’unità a se stante, scollegata dal resto, una bizzarra espressione di insularità. Sospensioni temporali e restringimenti incongrui (la doccia di Elisabeth dal soffitto infinito, metafora della sua condizione di prigionia) rafforzano l’impressione di un incubo a occhi aperti.
In un certo senso, i limiti di The substance sono gli stessi che vorrebbe denunciare: la superficie delle cose, come in un romanzo di Ellis, rischia di mangiarsi tutto il resto. Il film di Fargeat è un freak show femminista che sceglie di giocare sullo stesso terreno del cinema dei maschi irridendone poi la vacuità. Il sospetto è che la regista sia segretamente affascinata dalle fantasie più grossolane e decadenti di Hollywood, e che la critica sociale sia un pretesto per mostrarle morbosamente, in una sagra del putrido stilizzata, sbrigativa, estetizzante ma non priva di squarci di dolore autentico. Demi Moore che contempla allo specchio le miserie del proprio corpo in disarmo – il corpo di una donna ancora bellissima ma comunque non più giovane ed esplosiva come ai tempi di Striptease – è un momento di straziante raccoglimento e intimità. Così come i preparativi di Monstro Elisasue, teneramente agghindato a festa e poi disperato quando, misurando il ribrezzo della folla, urla: “it’s still me”. L’orgia di sangue finale potrebbe sembrare una pernacchia al Gladiatore 2 in sala in questi giorni, un controcanto irriverente e brat all’epica facilona del peplum fuori tempo massimo di Ridley Scott, ma l’obiettivo di The substance, in fondo, è lo stesso: intrattenere. L’intrattenimento è la malattia terminale della nostra epoca. Nella società dello spettacolo, ogni altra strada è preclusa.
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