Cheever, il lato shady di Netflix, il new giallo

Iscriviti alla newsletter

Iscrivendoti, autorizzi il trattamento dei dati personali secondo quanto stabilito nella privacy policy

Questo pezzo comincia con me sull’autobus che sfoglio il volume dei racconti di John Cheever e sbuffo, ridatemi Walker Percy! Peccato però, era bello però quel primo racconto, l’estate alcolica sulle rive di un lago, l’umidità, le zanzare, la casa decrepita, tutta una famiglia a mollo in una palude di risentimento stonato, esagitato, strozzato come tutte le vecchie storie di famiglia. Le successive venti pagine mi costringono a rimodulare il giudizio, cos’è questa roba, sembra quasi un riassuntino! Via via che la scrittura setaccia le vie di Shady Hill le cose migliorano. John Cheever, il guardonismo eretto a sistema, infilarsi discretamente nelle vite della piccola e media borghesia, annusare l’alito che sa di gin, gli umori di scopate clandestine, il puzzo stantio della morte dietro le siepi riverniciate di fresco. La borghesia in declino si confronta quotidianamente con la sindrome da accerchiamento. I comitati di Shady Hill presieduti da signore bene afflitte dal contagio della povertà. Oh Signore, la biblioteca pubblica? Ma è l’anticamera del socialismo!

Cheever è un maestro, io un asino. Leggere Cheever è un po’ come leggere Moravia, ma non proprio. Entrambi possedevano una straordinaria padronanza del mezzo espressivo, la lingua scorrevole come un cardine lubrificato di Svitol. Non c’è azione bislacca, elucubrazione filosofica o snodo freudiano che i due non avrebbero saputo appianare. Raccontare una storia, diceva Stephen King, è come assaltare una fortezza, devi scegliere il punto migliore e attaccare, e se non va, recuperare le forze e ripartire da un altro lato. Moravia e Cheever la fortezza la radevano al suolo e la ricostruivano daccapo, a modo loro. Leggere i loro racconti è come addentrarsi in una ghost town, una di quelle ex ridenti cittadine che un’autostrada costruita un po’ più in là, un terremoto, la crisi economica hanno spopolato, trasformando chiesette romaniche e graziosi palazzi di mattoncini in calcificazioni polverose ostaggio di erbacce, topi, pere di gruppo. I racconti di Cheever e Moravia sono scene del delitto in cui si arriva sempre dopo. Con una differenza. In Moravia si sente tutto l’artificio dello scrittore, il trucco del maestro. Cheever è più subdolo, discreto, spigliato. Offre pochi punti di riferimento, è geometrico e spiazzante, surreale e prosaico. Tipo Il nuotatore, da cui l’alter ego di Moretti ne Il sol dell’avvenire, Giovanni, avrebbe voluto trarre un film. Non so Giovanni, ma Moretti certamente un grande film dal Nuotatore potrebbe farlo, o forse avrebbe potuto, chissà.

In Cheever aleggia un senso di suspence. Non ci sono morti ammazzati, eppure una parola tira l’altra, una frase tira l’altra, leggi con avidità, devi arrivare fino in fondo, vedere cosa succede, come finisce. E quando lo scopri, rimani scioccato dalla tragica banalità della vita. La fine è già inscritta nella prima frase, la prima parola, il primo sguardo. Non c’è reale svolgimento, in Cheever, solo una progressiva, meticolosa presa di coscienza, un’implacabile messa a fuoco. Lettura e scrittura procedono di pari passo, sono entrambe esercizi di decodifica di un microcosmo fallito e bugiardo, da cui non si apprende nessuna lezione, o quasi. Il meglio che si può fare è tirare avanti.

In questi giorni sto guardando molta paccottiglia. Netflix, soprattutto. Pleonasmo. Dici paccottiglia e dici Netflix, in effetti. Netflix è un luccicante bric-a-brac di banalità variopinte. Produzioni più che dozzinali, milioni di dollari spesi per confezionare prodotti (notasi il sostantivo) sempre più generici, lacunosi, sciatti. Prendiamo Classic horror story, una specie di Midsommar ambientato nel sud Italia. Fa ridere già così. Uno non ha bisogno di guardarlo per capire di cosa si tratta, è roba giù vista, come tutto il catalogo Netflix, una spossante riscrittura di topos triti e ritriti. Milioni di dollari. Come si fa a spendere tutto quel denaro e non beccare neppure un direttore della fotografia decente, uno sceneggiatore decente, un attore decente?

Pare vada molto l’horror. L’estate è la stagione adatta. Preso da incomprensibile nostalgia 90s, ho rivisto I know what you did last summer, uno e due. L’horror degli ultimi trent’anni è il genere retromaniaco per eccellenza. Il postmodernismo, aka nobilitare la propria smania segaiola con la noia dell’autocoscienza, ha complicato tutto. Calvino mi ha entusiasmato per circa quindici minuti quando ero all’università, poi ho preferito dedicarmi a scrittori che raccontassero storie, anziché il modo di raccontarle (Tiziano Sclavi dixit). Wes Craven era ingegnoso, e se con lui la fascinazione va oltre il quarto d’ora è semplicemente per un fatto meccanico: ritmo, appello alla chimica dei sentimenti, cose così. Ma dopo il terzo capitolo Scream diventa grottesco. Gli ultimi due sono semplicemente orrendi. In confronto, I know what you did last summer è Orson Welles. Lo slasher anni ’90 era vitale. I know… cita tutto, da Venerdì 13 a Scream alle leggende metropolitane a Carpenter ma non è ancora mummificato nel culto paraculo del passato. Il retromarketing non era la spina dorsale di questi film, ma la passione del cinefilo nerd, quello che aveva mandato a memoria tutto lo scibile umano in fatto di maniaci, serial killer, mostri, mescolato alla celebrazione della sana, sincera vocazione autodistruttiva del teenager medio. L’elemento politico, più o meno labile, era assicurato dallo sfondo, la quieta e sonnacchiosa provincia americana, i sobborghi popolati di mostri, l’American dream che si rivela un incubo e, letteralmente, ti ammazza.

La trilogia di Fear street segue il successo degli ultimi due Scream e il demenziale (non in senso voluto) C’è qualcuno in casa tua, praticamente Scream sette o otto, ho perso il conto. Gli ingredienti sono gli stessi: protagonisti teen, sobborghi, maniaci accoltellatori mascherati, melting pot razziale e sessuale come prescritto dal nuovo codice Hays hollywoodiano. Queste pellicole fanno ciò che Stranger things faceva con gli anni Ottanta: un sacco. Lì erano Stephen King (a cominciare dal lettering da paperback) e la new wave, qui Wes Craven e il rock alternativo, ma con qualche anacronismo. La fotografia quasi outrun dell’incipit di Fear Street Parte 1: 1994 non ha nulla a che vedere con il cinema anni Novanta, nonostante l’accoltellamento di Maya Hawke (figlia di due icone del cinema che più 90s non si può) sia identico al primo delitto di Scream, con tanto di slow motion.

In Fear street la questione di classe è anzitutto plastica. Da un lato Shadylane, dall’altro Sunnyvale, due piccole comunità, una funestata dagli omicidi, l’altra trionfo di benessere e prosperità. Lì simpatici incasinati impasticcati computer-dipendenti, là stronzi boriosi campioni di football che strizzano il culo alle cheerleader e guidano macchinone lucide e rombanti. (La macchina è il grande feticcio americano, bene ha fatto Stephen King con Christine a sghignazzarci sopra.) La maledizione di Shadylane è la nascita svantaggiata, un incubo contro il quale l’ideologico ottimismo neoliberista non può nulla. Non male il finale, il centro commerciale trasformato in una prigione di maniaci assassini. La morale? Il benessere prospera col sacrificio degli innocenti. In Fear, però,la politica c’entra il giusto, il regno è quello di R. L. Stine. Streghe, possessioni, la purezza adolescenziale contrapposta alla corruzione adulta. Non vale la pena di parlarne. La trilogia è sceneggiata col pilota automatico, recitata col pilota automatico, si può vedere col pilota automatico, mentre cambiate una ruota in autostrada, risolvete il teorema di Fermat o allattate il pargolo. Netflix ha inventato il cinema senza cinema, il film senza film, un intreccio audiovisivo che non richiede alcuna capacità di decodifica. Basta gettare ogni tanto un occhio allo schermo.

Con Fear street sembra di essere in uno spin-off horror di That ’70s Show. Il passato ricostruito (male), abitato di fantasmi fuori tempo massimo. Cosa ci dice, oggi, il revival degli anni Novanta? Non è hauntology, non c’è traccia di spavento o disperazione per l’assenza dei futuri perduti. Il tratto lacrimoso della nostalgia è ripudiato da un marchingegno narrativo veloce e sbrigativo, didascalico ed iperemotivo, che non (si) fa domande e non cerca risposte. È puro estetismo, dozzinale come un hamburger di McDonald’s. Persino il creepypasta, con le sue ingenuità e le sgrammaticature, è più entusiasmante dell’horror di Netflix. Mescolando fiction e realtà, la transmedialità simula, attraverso un inveramento fasullo, una continuità sconvolgente, vertiginosa. È forse, questo, l’unico modo per raccontare qualcosa oggi – un cinema espanso, una scrittura che travalichi i confini di un medium infiacchito dal cattivo uso. Ma lasciamo perdere. Il punto è che nelle storielline à la Fear street non si affonda. Non è Cheever. Cheever è nato a Quincy, Massachusetts, in Elm Street. La casa dovrebbe esserci ancora. Non so se Craven fosse un lettore di Cheever, in fondo Elm Street è la nostra Via degli Olmi, anzi dei Platani, un comodo non-luogo finzionale, metaforico. Però l’angoscia che si respira in Nightmare on Elm Street è parente di quella cheeveriana. L’American dream come stile di vita disumano, mortifero, i genitori frustrati e gli adolescenti presi nel mezzo, incapaci di sottrarsi al Moloch, la civiltà dei consumi. Il mostro che non muore mai somiglia all’oggetto capitalista, serializzato, capace di colonizzare il tempo e lo spazio con la sua ubiquità, onnipotente. Del resto, Moloch esigeva giovani fanciulli in sacrificio. E forse Nightmare significa questo, uccidere l’adolescenza, i sogni di purezza, le ingenuità, plasmare la vita di giovani uomini e donne nel senso del rispetto di un ordine sociale opprimente e bugiardo, la farsa quotidiana delle convenzioni, il Sistema, affinché le Shady Lane del mondo, i Bullet Park, le Elm Street rimangano esattamente come sono.

Ancora oggi ci illudiamo che il punto non sia consumare meno, ma consumare meglio. È l’unica forma di razionalità che siamo in grado di concepire, il lascito definitivo delle rivolte sessantottine, il cui involontario pregio è stato dimostrare come il capitalismo possa sopravvivere alla morte della borghesia. La borghesia è morta – almeno, una certa idea di borghesia. E però ne abbiamo nostalgia, come di tutte le cose di cui non abbiamo potuto celebrare il funerale. Ci pensa il revival del giallo a resuscitarla (ancora! Avrei dovuto avvertirvi, questo è un post di fantasmi.)

Tanto per cominciare, il giallo di cui parlo non è l’Italian giallo, ma il giallo classico, da Conan Doyle a John Dickson Carr passando per l’immarcescibile Agatha Christie. Il revival hollywoodiano è cominciato grossomodo con Guy Ritchie ed è approdato a Kenneth Branagh, ma il genere non è mai passato di moda (Poirot è in heavy rotation su Top Crime da anni). Anche qui, gli ingredienti sono codificati in modo preciso: l’investigatore privato, il delitto ingegnoso (il mio sub genere preferito è quello del “delitto della stanza chiusa”), l’ambientazione alto-borghese quando non aristocratica, la risoluzione finale con l’adunata dei sospettati e il detective che spiega il whodunit con la studiata lentezza di un teatrante, un fatto alla volta come uno spogliarello, et voilà. Il giallo è il trionfo della razionalità sulla materia sconcia, oscena, della morte. La morte è l’interruzione dell’ordine, una frattura brusca e inesplicabile, improduttiva (Bataille). Il mistero va risolto rapidamente e totalmente per consentire alla ferita nel corpo sociale di rimarginarsi e al mondo, il mondo com’è e come deve essere, di proseguire. Nel microcosmo del giallo classico il delitto è sempre un affare upperclass. Il male cova, si annida nella dissipatezza di figli capricciosi, mariti ambiziosi, mogli dissolute, gigolò, parvenu. Anche qui, l’ordine sociale imprigiona, ma il giallo non è un genere politico. Poirot conosce la disperazione che si annida nei salotti bene di Londra, nelle incantevoli magioni di campagna, negli uffici liberty dei capitani d’industria, ma quando svela l’identità dell’assassino neppure per un secondo immagina di biasimare la società. Nel giallo l’ordine sociale produce solo il bene (la stabilità, la prosperità eccetera), il male è una scelta individuale. Determinismo a senso unico. Comodo, no?

La razionalità è l’elemento portante del giallo classico. L’intreccio è concepito come un puzzle, la psicologia dei personaggi è ridotta all’essenziale. Facendo appello alla ragione, il detective riporta l’ordine là dove le tenebre del mistero minacciano di inghiottire ogni cosa. Le riverniciature spettacolari di Kenneth Branagh, lo Sherlock Holmes scanzonato e kung-fu di Ritchie, i vari Knives out o Omicidio nel West End ripropongono il corollario di stereotipi di genere, aggiungendo qua e là un pizzico di consapevolezza meta-narrativa. Nel primo Knives out, ad esempio, la vittima è uno scrittore; nel secondo, un mega miliardario hi-tech invita i suoi potenziali assassini a una serata stile Signori, il delitto è servito. In Omicidio nel West End a indagare è una coppia di poliziotti, ma non siamo fuori dal perimetro del giallo. Il delitto, le modalità con cui viene eseguito e lo sfondo richiamano esplicitamente Agatha Christie, ritratta nel finale come una vecchia svitata con tendenze omicide. Si scivola nella farsa. Fiacche risate.

La versione branaghiana di Poirot non mi piace. È una trasposizione enfatica, spettacolare, piani di ambientamento con droni che volteggiano, inserti didascalici del montaggio. Branagh è un Poirot troppo moderno, un eroe passionale, romantico, ferito. I complicati baffoni che sfoggia nascondono uno sfregio di guerra, menomazione fisica che richiama quella sotterranea dell’amore perduto (ah, queste scuole di sceneggiatura!). Tutto il contrario del garbo camp di David Suchet, dell’ironia godereccia di Peter Ustinov, della composta sgradevolezza di Albert Finney, per me il migliore.

L’anacronismo caratterizza Daniel Craig, aka Benoit Blanc, nel dittico Cena con delitto Glass onion. Strano guardare film ambientati ai nostri giorni in cui si pretende di presentare impunemente un certo personaggio come “il più grande detective al mondo”. È come se nel mezzo di una festa tirassi fuori un fonografo e, con genuino trasporto, dicessi ai miei amici: ammirate questo meraviglioso ritrovato della tecnica!, aspettandomi l’applauso. È impossibile attualizzare in modo credibile il giallo. Il giallo è un prodotto post-vittoriano (la morale) e positivistico (l’ethos). Non c’entra nulla con il disincanto burino e la già logora fluidità della nostra epoca. L’anacronismo è il prezzo da pagare. Lo Sherlock Holmes di Ritchie è praticamente steampunk. Omicidio nel West End è ambientato nel 1953 ma è diretto da un cattivo imitatore di Wes Anderson – o forse è solo che Saoirse Ronan è troppo graziosa per essere vera.

L’irresolutezza di un’epoca si misura con il cinema. La lotta di classe sopravvive sul grande schermo in forme ideologicamente confuse (Parasite non è socialismo, neppure Triangle of sadness). Il nostro desiderio è senza nome, diceva Mark Fisher. La voglia di rovesciare il tavolo, denunciare gli abusi, le storture di un mondo che non sembra funzionare più a dovere si accompagna alla celebrazione narcisistica di sé, l’io ridotto a feticcio, la religione del consumo officiata nell’illusione che possa davvero liberarci dal male, amen! Disprezziamo i ricchi quel tanto che basta, sotto sotto li sogniamo. Sostituzione di classe. E comunque non importa. Forzare i sottoprodotti della cultura dell’intrattenimento perenne con il grimaldello del marxismo, cercare a tutti i costi di vedere riflesso in un brutto racconto le contraddizioni del presente, denunciarle con un post sul blog o una recensione nella speranza che ciò produca un effetto iperstizionale uguale e contrario a quello capitalistico, è tempo perso. È solo Netflix.

Iscriviti alla newsletter

Iscrivendoti, autorizzi il trattamento dei dati personali secondo quanto stabilito nella privacy policy