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La permanenza del cinema contro l’impermanenza della vita. Prima opera in trentuno anni dello sfuggente spagnolo Victor Erice, Cerrar los ojos mette in scena il più classico dei contrasti mescolando rigore e meraviglia in un film palinsesto di malinconica intensità.
Il grande attore Julio Arenas scompare mentre sta girando il film del suo amico Miguel Garay, La mirada del adiós: suicidio, incidente o fuga? Vent’anni dopo, Arenas ricompare come Gardel in una residenza per anziani, factotum smemorato in modo (forse) insanabile. Miguel non si dà per vinto. Nella speranza di risvegliare Arenas, alla presenza di questi e della figlia, Ana, proietta le ultime sequenze del film incompiuto, in cui l’amico interpretava un anarchico fuggito dalla Spagna franchista e ingaggiato da un ricco signore per rintracciare la figlia rapita dalla moglie e condotta in Cina. Il ricco signore, nell’imminenza della morte, brama lo sguardo della figlia. Lui, che ha finto e dissimulato per tutta la vita, ha bisogno, per tramite di questo sguardo, di ri-trovarsi. La prova definitiva della nostra identità, della nostra esistenza, ci sfugge, è fuori di noi. Se nessuno ci guarda, cosa siamo? Garay, lautamente ricompensato, partecipa a un’inchiesta televisiva dedicata al cold case. Erice non giudica l’intrattenimento tv, ma affida al cinema la soluzione del mistero. L’attore è per definizione un corpo svuotato di ogni individualità, un simulacro – “nessuno”, perché “centomila” non possono mai ridursi a “uno”. Domandarsi se lo svampito Gardel sia Arenas, e in definitiva chi sia Arenas, ha dunque poco senso. Dietro la ricerca di Miguel, in cui riecheggiano certi personaggi di Antonioni o il naufrago del “Morel” di Bioy-Casares, si nasconde il desiderio di colmare un vuoto personale. La sua parabola esistenziale si è svolta alla insegna della rinuncia, dell’esilio volontario. Ha scritto un solo romanzo (Las ruinas, come un saggio di Erice su Tarkovskij) e l’unico film che è riuscito a girare, per sua stessa ammissione, non l’ha visto nessuno. Dopo il fallimento di La mirada del adiós si è cimentato con qualche sceneggiatura e piccole traduzioni per una casa editrice di cinema. Vivacchia nella campagna andalusa dove coltiva l’orto, pesca e canta vecchie canzoni di cowboy (My rifle, my pony and me, da Rio Bravo di Hawks) assieme a una piccola truppa di altri esuli volontari, la famiglia acquisita dopo la morte del figlioletto in un incidente e il divorzio dalla moglie.
Lo spreco di Miguel è consapevole e triste, quello di Arenas / Gardel agisce come una specie di demenza, in cui la vittima è beatamente ignara. Carpire il segreto dell’amico è, per Miguel, un modo come un altro per istruirsi a morire. “Chiudere gli occhi”, però, è anche la premessa per riappropriarsi della purezza della propria visione, gesto necessario in un’epoca di sovrastimolazione audiovisiva, di frastuono inutile, di brutto senza fine. Erice ammette la possibilità del miracolo. Il quale, anzitutto, è la forza stessa del cinema, la sua capacità, ancora intatta in epoca di streaming, di “scolpire il tempo” (Tarkovskij) e riconnettere ciascuno con la parte più profonda di sé. Il tentativo di Miguel, la terapia d’urto della visione di La mirada del adiós che è quasi un atto psicomagico, non è chiaro se vada a buon fine. Lo splendido José Coronado, sul finale, chiude gli occhi, e cosa riemerga dai recessi della sua coscienza non ci è dato sapere. Ma il fatto stesso che Miguel, vecchio e stanco, ci provi, che scelga con determinazione la via di un tentativo ingenuo, quasi fanciullesco, potenzialmente fallimentare, è commovente, ed è forse già una guarigione.
L’odissea nella memoria di Miguel (l’ottimo Manolo Solo) è costellata di oggetti – una foto di scena, un pezzo degli scacchi, le scarpe abbandonate da Arenas sul luogo della sparizione – dal forte valore simbolico. Sono indizi, attivatori di ricordi, ma soprattutto ancoraggi, come la trottola di DiCaprio in Inception, necessari in un mondo in cui realtà e finzione si confondono. Tutto il film è punteggiato di citazioni dei maestri del passato (Hawks, i fratelli Lumiere, Murnau, Dreyer) e auto-citazioni dello stesso Erice. La figlia di Arenas è interpretata da Ana Torrent, già protagonista dello splendido El espíritu de la colmena (1973), in cui, bambina, rimaneva impressionata da un film su Frankenstein al punto di credere che il mostro esistesse sul serio. La mirada del adiós richiama Il mistero di Shanghai, romanzo di Juan Marsé al cui adattamento Erice lavorò senza successo (il film fu poi realizzato da Fernando Trueba). Nelle ambientazioni andaluse ritroviamo tracce di El sur, film del 1983 distribuito incompiuto per via del budget esaurito, altro ritratto di figura paterna sfuggente, da ricostruire.
La storia spagnola, con la tragedia umana e morale del franchismo non ancora superata, fa da sfondo all’odissea di due uomini perduti che Cerrar los ojos racconta con una specie di pudore, scandendo il proprio tempo con dissolvenze incrociate come capitoli di libri, in un equilibrio incantato tra verità e finzione in cui ogni parola, ogni gesto, ogni sguardo risultano essenziali. L’ultima opera di Erice, a cinquant’anni esatti dall’incredibile esordio, chiude poeticamente il cerchio di una filmografia scarna ma preziosa, in cui il cinema è l’occasione di un viaggio iniziatico alla scoperta di se stessi.
“Cerrar los ojos”, Victor Erice (2023)
Lingua originale: spagnolo
Paese di produzione: Spagna, Argentina
Anno: 2023
Durata: 169 min
Rapporto: 2,39:1
Genere: drammatico
Regia: Víctor Erice
Sceneggiatura: Víctor Erice, Michel Gaztambide
Fotografia: Valentín Álvarez
Montaggio: Ascen Marchena
Musiche: Federico Jusid
Scenografia: Curru Garabal
Costumi: Helena Sanchís
Trucco: Beatushka Wójtowicz
Interpreti: Manolo Solo, José Coronado, Ana Torrent, Petra Martínez, María León, Mario Pardo
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