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Gli eroi son tutti giovani e belli. Cléo non conosce Guccini, dieci anni la separano dalla Locomotiva, ma è bella, molto, e giovane pure. Di mestiere fa la chanteuse, ha pubblicato alcuni singoli, è, come si dice, in rampa di lancio. Il guaio, però, è che nel suo piccolo mondo parigino di inizio ’60 non regge più l’equazione bellezza uguale salute. Cléo è malata, lo sa, non ha bisogno del referto medico che pure l’attende a fine giornata. I tarocchi marsigliesi con cui Agnes Varda apre Cléo dalle 5 alle 7 offrono un responso più che sufficiente per il suo spirito superstizioso. La ragazza pesca il tredicesimo arcano maggiore, la Morte; come se non bastasse, madame Irma rifiuta di leggerle la mano. Non sono in grado, dice, ma non è vero, si capisce dallo sguardo. Quando Cléo lascia la stanza e imbocca sconvolta la scalinata che la porterà in strada, la donna bisbiglia al marito la parola che nessuno vorrebbe mai sentire: cancro.
L’apertura del film è un prologo in perfetto stile Varda. I tarocchi sono a colori, Cléo e la cartomante in bianco e nero, come il resto del film. Per il suo secondo lungometraggio la regista belga covava un progetto ambizioso, ma il produttore Georges de Beauregard le chiese un piccolo film che non costasse più di trentadue milioni. Varda rinunciò all’idea iniziale (La Mélangite, storia sentimentale di un giovane mitomane tra Sète e Venezia) e ripiegò su un soggetto più umile, non meno originale. Cléo dalle 5 alle 7 impila tredici quadri, o capitoli, ciascuno intitolato a un personaggio e scandito da un minutaggio preciso. Il film segue per complessivi novanta minuti la protagonista, interpretata dalla splendida Corinne Marchand, il suo vagabondaggio via via più angoscioso per le strade di Parigi nel giorno del solstizio d’estate, in attesa del verdetto medico. Tempo della storia e tempo del racconto coincidono. Fatte salve un paio di brevissime scene, la macchina da presa non abbandona mai Cléo. Non solo i tempi, anche l’itinerario seguito dalla protagonista è reale, misurato da Varda, ma senza l’ossessione di far quadrare meccanicamente i conti. Cléo è libera di sperimentare un tempo soggettivo. Un minuto prima dice «ci resta così poco tempo», un minuto dopo «abbiamo tutto il tempo».
Le fonti del soggetto sono molteplici: Jacques il Fatalista e il suo padrone, di Diderot, i Quaderni di Malte Laurids Brigge di Rilke, La signora Dalloway di Virginia Woolf, un pizzico di iconografia medievale (i dipinti di Hans Baldung Grien, con la morte che abbranca tenere fanciulle bionde), la pittrice-decoratrice Leonor Fini, non da ultimo l’autobiografia della stessa Varda, certe sue passioni (Edith Piaf) e il ricordo dell’inevitabile smarrimento di piccola provinciale al cospetto della grande, chiassosa, arrembante metropoli. Il film fu girato in tre mesi con una troupe composta da svariati collaboratori del marito, Jacques Demy. Il piano di lavorazione ricalcava cronologicamente gli eventi della sceneggiatura, per economizzare e favorire l’immedesimazione di Marchand nei panni della protagonista. Frivola, vanitosa e superstiziosa, Cléo è una bambola oggetto degli sguardi concupiscenti degli uomini. Subito dopo il responso di madame Irma, studia il proprio volto allo specchio: finché sono bella sono viva, dice. La bellezza è la tua salute, la conforta più tardi il munifico amante, José. Il cancro, si sa, cova sotto la pelle, agisce nella profondità delle viscere. Nulla sul volto di Cléo lascia intravedere il male che potrebbe annidarsi. Nel terzo capitolo la troviamo nel negozio di una modista. Accompagnata dalla vedova Angèle, un po’ dama di compagnia e un po’ mamma, rimbalza come un’ape regina da un cappellino all’altro, specchiandosi continuamente, compiacendosi della propria potenza seduttiva ancora intatta. Poco prima, in un bistrot, era scoppiata in lacrime. È la recita di una donna di spettacolo. In Cléo c’è un amore per il melodramma che neppure lo sgomento di fronte alla malattia sembra attenuare.
Nella prima parte del film, Cléo deriva la propria esistenza dallo sguardo dell’Altro. La bellezza è la condizione fondamentale perché la vita possa proseguire. La natura in un certo senso illusoria di Cléo, la sua debolezza ontologica, è confermata dal gioco di rifrazioni, sovrapposizioni, specchi negli specchi che Varda imbastisce soprattutto nei primi tre capitoli, una scomposizione di matrice surrealista che accentua la confusione dello spettatore: chi è realmente Cléo? La costruzione millimetrica delle inquadrature, la cura fotografica delle luci, il decor finemente studiato si amalgamano alla perfezione con gli inserti stile cinéma vérité, con Marchand (nella vita, una star dell’operetta) a passeggio per le strade di Parigi contornata della sua varia umanità. Il simbolismo punteggia il racconto in modo per nulla forzato. Il negozio di inquietanti maschere esotiche, il forains che inghiotte rane vive, quello che si infilza il bicipite con uno spillone d’acciaio, e poi gli specchi rotti, i cortei funebri, i fori di pallottole nelle vetrine, persino la tragica attualità della guerra in Algeria e il ricovero di Edith Piaf raccontati dal giornale radio: il percorso di Cléo è costellato di “segni” che rimandano a un destino che sembra ineluttabile. Il turning point del film è, però, una canzone.
Nel quadro VII, Cléo è nel suo atelier. Qui riceve la visita del suo amante. Atmosfera languida, zuccherosa, sottolineata dalla musica, dal ritmo del montaggio, dal dialogo sofisticato. Cléo, sensuale cocotte di bellezza mozzafiato, risplende nel nitore insalubre in cui il film la avvolge grazie all’uso sapiente dell’illuminazione naturale. In Oriente, annotava Varda nei suoi appunti preparatori al film, il bianco è il colore della morte. Anni dopo, anche Professione: reporter di Antonioni (regista amato da Varda) racconterà una luminescente odissea mortuaria. Nella scena dell’atelier, Varda abbiglia Marchand con un pomposo négligé bianco, come bianche sono le pareti, mentre neri sono il pesante letto in ferro e il pianoforte intorno a cui si radunano, andato via José, i musicisti. L’atmosfera è leggera, seppure leggermente soffocante, ma quando Cléo intona Sans toi (scritta da Michel Legrand, il pianista), le parole della canzone hanno l’effetto di un’inaspettata sveglia. È il climax del film. Il testo traduce perfettamente l’angoscia di Cléo, prefigurandone la triste fine («sola, brutta e livida»). Con una lenta carrellata, Marchand si ritrova isolata dal resto della compagnia, composta da Angèle, Legrand e Serge Korber nei panni del paroliere. Pallida e bionda, primo piano su sfondo nero, Cléo canta con passione, mentre la musica in sottofondo non è più quella del pianoforte di Legrand, ma una vera orchestra. In atto è un processo di individuazione. Cléo prende consapevolezza del suo ruolo di marionetta. Reagisce con stizza ai musicisti che l’accusano di essere capricciosa e mettono in dubbio il suo talento. La trasformazione passa per l’aspetto. Al culmine della disperazione, sopraffatta dall’angoscia («E’ troppo!»), si strappa via la parrucca, toglie il négligé, opta per un sobrio vestito nero. Si ribella alla superstiziosa Angèle (che madame Irma aveva definito una «influenza non positiva») indossando il nuovo cappello anche se di martedì «porta male». Incomincia la «trasformazione profonda di tutto il suo essere» prefigurata dalla cartomante a inizio film.
È di nuovo in strada, adesso. Dopo una tappa al caffè Dôme (capitolo VIII), in cui suona al jukebox una sua canzone e si guarda attorno cercando tracce di un riconoscimento, va a trovare un’amica modella. Si tratta di Dorothée Blanck, apparsa anche nel corto del ’58 L’Opéra-Mouffe, «taccuino di una donna incinta», secondo la definizione di Varda, con cui Cléo condivide alcuni punti di contatto, non da ultimo il tema della trasformazione fisica cui corrisponde una mutazione della percezione. Dorothée non ha timore o imbarazzo a mostrarsi nuda davanti a un gruppo di artisti, al contrario di Cléo che al posto suo si sentirebbe «inerme». Il suo è un «nudo freddo», scrive Varda, privo della sensualità di una spogliarellista o una prostituta. «Quando mi guardano», spiega Dorothée, «so bene che cercano qualcos’altro che me, una forma, un’idea». Dopo la ragazza del bistrot che rifiuta il proprio amante (cap. I), la tassista che scorta Cléo e Angelé in giro per Parigi (cap. II) e la madre nel caffè Dôme, Dorothée è l’ennesima figura femminile ben centrata, ben piantata nella realtà, con cui la fatua chanteuse è chiamata a confrontarsi. Seguendo il consiglio di Dorothée, l’auto su cui viaggiano ferma in un parcheggio, Cléo comincia a studiare la folla. Per la prima volta, il suo sguardo non si limita a registrare l’approvazione altrui, ma osserva il mondo intorno con curiosità. È sempre Dorothée che indirizza Cléo verso il parco Montsouris, dove avverrà l’incontro decisivo con Antoine, ma non prima di averla condotta al cinema, a vedere una pantomima ispirata ai film di Buster Keaton, in realtà un corto di Varda con Jean-Luc Godard, Anna Karina, il produttore de Beauregard e Jean-Claude Brialy, mezza Nouvelle vague insomma.
Gli ultimi due capitoli del film segnano l’approdo definitivo di Cléo a una nuova consapevolezza. Il parco Montsouris è illuminato dalla solita luce naturale corretta in chiave surreale, con un filtro verde a rischiarare le foglie, donandogli una consistenza nevosa. Antoine è un giovane soldato in licenza, romantico e di buone letture. Domani partirà per l’Algeria, dove la guerra imperversa da otto anni. È il «chiacchierone» a cui madame Irma faceva riferimento nel prologo, un incontro inaspettato a cui Cléo, di solito insofferente agli abbordaggi, non si sottrae. I due personaggi condividono un destino comune. Entrambi vivono una «morte sospesa», Cléo per il cancro, Antoine per la guerra. Si intravvede lo spirito da sociologa di Varda. In quegli anni, furono oltre 2 milioni i giovani francesi richiamati in Algeria per il conflitto. Al tempo stesso, una delle paure più diffuse tra la popolazione civile era il cancro. Al termine di un dialogo su una panchina, incapsulati in uno sfondo abbagliante, fuori dal tempo perché già fuori dalla vita, Cléo e Antoine decidono di fare fronte comune di fronte al destino. Antoine accompagnerà Cléo all’ospedale per scoprire l’esito dell’esame, la ragazza sarà con lui in stazione al momento della partenza. L’inaspettata alleanza dona un po’ di forza e di serenità a Cléo, la quale, nonostante la diagnosi infausta, scoprirà di non aver paura, di essere persino felice.
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