Iscrivendoti, autorizzi il trattamento dei dati personali secondo quanto stabilito nella privacy policy
Questo paese ha già dato il meglio di sé? Il vizio di molte epoche è quello di considerarsi decadenti rispetto a un glorioso e spesso mitico passato. Lo ravvisava magnificamente Ortega y Gassett quando disquisiva sulla “pienezza dei tempi”. Per il grande spagnolo, la tendenza all’autocommiserazione spesso oscura il dato di una società ricca di opportunità, potenzialità, strumenti. Se guardiamo il nostro tempo, esso è più che mai prodigo di cose materiali e immateriali. Tuttavia, l’esperienza quotidiana, fatta, più che di realtà oggettiva, di sensazioni esasperate dalla cronaca minuto per minuto, via social e tg, dei disastri della modernità, ci suggerirsce l’immagine di un irreversibile declino. Neppure rinfranca lo spirito la lettura del saggio di Luca Ricolfi, La società signorile di massa, un viaggio nella più sconcertante eppure sottovalutata contraddizione della nostra epoca, quella di una società insieme opulenta e stagnante.
Cos’è la società signorile di massa? Il “luogo” nato dall’intersezione di tre condizioni: sovrappiù degli inoccupati rispetto agli occupati, un consumo “signorile” (ovvero di beni non di prima necessità) praticato dalla maggioranza della popolazione, la stagnazione economica. Tre condizioni che caratterizzano la società italiana dell’ultimo decennio. Tre condizioni, a ben vedere, che rappresentano il risvolto della medaglia della modernità secondonovecentesca, dal dopoguerra alle soglie della Seconda Repubblica, il periodo di massima espansione della nostra economia.
Lo studio di Ricolfi è puntuale, ben documentato, ricco di numeri interessanti. Per esempio: gli italiani che non lavorano sono il 52,2%, quelli che lavorano il 39,9%. Esatto: oltre la metà dei cittadini dai 14 anni in su non svolge alcun impiego. Solo la Grecia fa peggio di noi. Ciò non toglie che la nostra sia una società opulenta: oltre la metà delle famiglie accede a consumi voluttuari o di lusso, ovvero non legati alle ragioni della sussistenza. Il turning point non si è verificato con il boom, che rappresentò l’occasione per molti italiani di uscire dalla povertà, bensì a partire dagli anni ’80, quando beni come la seconda auto, la casa al mare e le vacanze organizzate in weekend lunghi e ripetuti divennero alla portata della maggioranza dei nostri connazionali. Ed ecco il punto, scrive Ricolfi: «Dal momento che a lavorare è una minoranza di cittadini italiani, e la maggioranza che non lavora, quasi sempre, è legata a quella che lavora attraverso le relazioni familiari di coniuge, figlio, genitore, ecco che siamo in presenza del tratto distintivo della società signorile: l’appropriazione di una porzione significativa del surplus da parte di chi non lavora. Con un’importante qualificazione: ora i signori sono più numerosi dei produttori».
Per misurare lo scarto con la generazione che ricostruì il paese dopo la Seconda guerra mondiale è utile un dato: nel 1951, il tenore di vita dell’italiano medio era più o meno quello che oggi l’Istat considera il minimo vitale. Ai giorni nostri, il potere d’acquisto medio è quasi quadruplicato. Al netto degli immigrati (il 7,9% dei lavoratori, di cui 1 su 3 povero), il reddito delle famiglie italiane è in media di 50.000 euro. Fino al 1995, il tasso di crescita del nostro paese era in linea, se non superiore, alla media degli altri paesi europei. Nel corso di cinquant’anni abbiamo costruito la nostra ricchezza. Il risparmio privato si è giovato non solo della dinamica dei redditi da lavoro ma anche dell’espansione del debito pubblico, che ha consentito di aumentare i dividendi pagati dai titoli di stato emessi per coprire la spesa pubblica. Il 1964 è, per Ricolfi, l’anno cruciale. La “congiuntura” (oggi si direbbe la recessione) segnò l’inizio della crescita dell’indebitamento. Da allora, l’Italia si è trasformata in una Repubblica democratica fondata sulla rendita, poiché essa “pesa” più dei salari e dei profitti. La Seconda Repubblica si aprì all’insegna delle difficoltà per la nostra economia. La doppia recessione 2008-2009 e 2011-2012 ha peggiorato la situazione. Nel 2009 il tasso di crescita è divenuto negativo e solo negli ultimi anni si è faticosamente riavvicinato all’1%.
L’aspetto interessante è che mentre l’economia è sostanzialmente immobile, non così si può dire di tutto il resto. Se l’andamento della ricchezza prodotta è tipico delle società “fredde” (Levi-Strauss), pre-capitalistiche e assai statiche, la velocità della trasformazioni tecnologiche, sociali, culturali fa piuttosto pensare al dinamismo delle società “calde”. Insomma, siamo una società “a somma zero”, in cui tutto cambia velocemente ma senza crescita.
E i giovani? La storia del nostro paese insegna che un popolo affamato, rimboccandosi le maniche, può ribaltare il proprio destino, trasformare la propria nazione da povero paese agricolo nella settima potenza industriale. Dove sono le nuove leve? Se c’è una parte del saggio di Ricolfi più interessante della definizione dello scenario oggettivo è quella dedicata alla precisazione del quadro soggettivo, la “mente signorile”. E se è vero che l’Italia, per condizione oggettiva, è l’unica che si possa definire (secondo lo schema di Ricolfi) una società signorile di massa, la “mente signorile” pare aggregare una serie di tendenze riscontrabili oggi in tutte le società occidentali.
Partiamo da un grande classico: la distruzione del sistema scolastico. Ricolfi individua due snodi cruciali sul piano legislativo: il 1962, con la riforma che unifica la scuola media unica, superando la distinzione tra scuola media e avviamento professionale, e il 1969, con la liberalizzazione degli accessi universitari. Sul banco degli imputati ci sono anche il “donmilanismo”, l’idea che la scuola dell’obbligo non dovesse bocciare, e la contestazione studentesca, con il 18 (ma anche il 30) politico, a cui le istituzioni finirono col piegarsi. Il risultato è stato, da un lato, la perdita di produttività del sistema scolastico: per raggiungere, oggi, il livello di un diplomato di terza media del 1962, servono, secondo Ricolfi, otto anni di scuola in più. Dall’altro, l’inflazione dei titoli di studio con la conseguente frustrazione delle aspettative dei giovani, delusi dal fatto che il “pezzo di carta” si riveli spesso insufficiente per raggiungere una sistemazione consona alle legittime aspirazioni. Il che ci porta al fenomeno della disoccupazione volontaria. Cito dal saggio di Ricolfi un passaggio interessante, che mi pare colga bene una certa psicologia odierna: «Credo sia stato Pierre Bordieu il primo, negli anni settanta, ad attirare l’attenzione sul curioso fenomeno per cui nella società del benessere, caratterizzata dall’istruzione di massa, all’individuo diventa possibile, per non dire naturale, sdoppiarsi tra un finto sé – che accetta compromessi e si accontenta di sbarcare il lunario con il lavoro che trova – e il proprio vero sé, che si pensa addirittura protagonista di un’altra vita, in cui fa un’altra professione, anzi la vera professione che gli compete, l’unica all’altezza dei suoi meriti e dei suoi sogni».
La distinzione tra finto sé e vero sé è più antica, rimanda addirittura a Lutero e Rousseau (ne parla Fukuyama nel suo ultimo saggio, Identità, per sottolineare il retroterra culturale dell’odierno narcisismo di massa). Comunque sia, ha ragione Ricolfi quando sostiene che la dimensione immaginaria, «anziché coesistere con l’accettazione provvisoria di un lavoro inadeguato, si risolve nella pura e semplice rinuncia al lavoro, nell’attesa dell’occasione propizia, capace di offrire quel che si ritiene di meritare».
Niente di male, ovviamente. Il fatto, però, è che questa “classe disagiata” può permettersi di prolugare il tempo degli studi e rifiutare proposte di lavoro perché la generazione dei padri e dei nonni ha accumulato enormi ricchezze. L’elevato risparmio familiare è, probabilmente, uno dei fattori che influisce sulla presenza (record europeo) dei NEET, i giovani che non studiano, non lavorano e neppure lo cercano, un lavoro: ben il 30% degli individui tra i venticinque e i ventinove anni, contro il 18,7% della Francia. Ecco, quindi, che lavorare può non essere la scelta più razionale per un giovane: se i genitori ultrasessantenni mi permettono una vita comoda, perché rinunciarvi? Per immettermi in un mercato del lavoro ultracompetitivo, precario, in grado di offrirmi solo posizioni al di sotto delle mie aspirazioni, dell’immagine che ho di me? Meglio accontentarmi di quello che ho e attendere la mia quota del flusso successorio, che Ricolfi stima complessivamente in 250 miliardi di euro circa.
Ma il quadro, in questo modo, non sarebbe completo. La propensione al risparmio, che nella società italiana da sempre è molto alta, a partire dal 2010 ha imboccato una strada decrescente. Nel cuore della crisi, le famiglie hanno messo mano al portafogli per evitare di restringere troppo i consumi. Nonostante una migliore condizione economica, la propensione al risparmio odierna è inferiore a quella dei livelli pre-crisi: 8% del reddito disponibile contro il 12%-13%. Quali consumi ne hanno beneficiato? Food, ristorazione, pasti fuori casa, vacanze brevi tutto l’anno, gioco d’azzardo (aumentato del 110%), fitness, cura di sé e sostanze pericolose come alcool e droghe. La regola di vita, non solo dei giovani ma anche dei loro genitori, sembra essere il carpe diem: massimizzare le gioie qui ed ora, al di fuori cioè di ogni pianificazione del futuro.
La cultura dell’uso, apparentemente un progresso rispetto alla cultura del possesso (dal car sharing al surf couching), è in realtà una trappola. Asseconda «la ricerca costante di mezzi per far sgorgare il reddito dalle cose stesse, possibilmente senza apporto di lavoro. E, insieme a questa ricerca, la sperimentazione perpetua di forme sempre nuove di consumo». La questione, alla fine, è la sparizione del futuro, il presente puntiforme, l’impazienza nel realizzare un progetto di vita allergico all’attesa, al sacrificio, all’evoluzione lenta delle cose, alla fatica. Una facilità che è tutto meno che sinonimo di felicità. Eliminare l’attrito, smussare gli angoli, cancellare le asperità (la “levigatezza” di cui parla Byung Chul-Han) priva del piacere della riuscita, del brivido dell’impresa vittoriosa, della gioia di raccogliere le proprie forze e concentrarle tutte su un obiettivo.
Il carpe diem della signorilità di massa è privo della medietas oraziana, l’arte di accontentarsi. Accontentarsi è da mediocri. Non dimentichiamoci che l’imperativo dominante, oggi, non è quello etico-morale ma quello prestazionale, l’esortazione “superegoica” (amplificata dai social e dal marketing emozionale) a essere qualcuno. Lo scrivono Recalcati e Han, ma lo sostiene anche Ricolfi. Storicamente, diventare qualcuno, autorealizzarsi, significava raggiungere una posizione sociale definita da una condizione professionale o altra (costruire una famiglia, comprare una casa ecc.). Queste attività presuppongono però fatica e capacità di attesa, qualità che sono estranee direi non solo al novello signore-massa ma all’uomo contemporeaneo. L’autorealizzazione, al giorno d’oggi, riguarda attività non faticose, in grado di offrire una gratificazione immediata. «Il vero sforzo sta nel trovare la nicchia in cui emergere, nel convincere gli altri che quella nicchia ha valore, e che noi stessi ne siamo occupanti significativi». La parola “influencer” vi dice qualcosa?
La scusa che si adopera per giustificare queste operazioni di autopromozione è il valore della condivisione. Ma è una truffa. Condividere è privarsi di qualcosa in favore di qualcun altro. Mettere in piazza ogni dettaglio più insignificante e meschino della propria vita non significa privarsi di alcunchè, è un atto iperindividualistico, di vanità, presuntuoso, che accresce il molesto rumore di fondo della socialsfera. Morto il Padre (Lacan), e con esso l’idea di una società gerarchica (della “deferenza” o “sovranità” batagliana), la competizione si è spostata dal terreno della ricerca di posizioni di status elevate alla ricerca di nicchie di notorietà e riconoscimento. Il consumo e l’impiego del tempo libero, in questo senso, sono d’aiuto, permettono di coltivare l’illusione di cui parlava oltre quarant’anni fa Bordieu. Il gioco è plasmare e trasmettere, della propria vita, un’immagine straordinaria in grado di riscattare le condizioni oggettive ordinarie. La commessa in viaggio ai Caraibi può sentirsi, se non superiore, almeno alla pari dello stimato professionista che guadagna il doppio ma è sempre al lavoro.
Si tratta, al solito, di essere qualcuno, ma si agisce per compensazione, anche sul piano dei valori. Negli USA si parla di “classe aspirazionale” per indicare quel segmento di popolazione il cui status esclusivo è definito dal capitale culturale, un’insieme di abitudini di consumo contraddistinte da una certa sensibilità etica ed estetica. Persino la generosità liberale, affidata alla volontà del singolo e all’empatia in una società in cui il senso di comunità risulta quasi del tutto dissolto, e il politically correct, una pedagogia di massa impartita dall’alto, sono un’occasione per irrobustire la nostra autostima, oltre che «la risposta delle società individualiste al declino della cultura civica stessa».
Il saggio di Ricolfi s’interroga anche sul futuro. L’Italia, ribadisce il sociologo, «fra i paesi avanzati, risulta essere l’unica società signorile di massa». Ciò non toglie che tratti della società signorile di massa, distinti in primari (elevato peso degli inoccupati, elevata ricchezza, stagnazione) e secondari (NEET, disuguaglianze nell’allocazione del lavoro, alto peso del tempo libero nella vita, molti anziani, pochi figli per donna fertile) siano presenti anche in altre società, per esempio Grecia, Belgio, Francia, Finlandia. L’Italia rimane, però, almeno per il momento, un caso unico. Non c’è di che gioire della ricchezza e dell’opulenza di cui parla Ricolfi. Le ombre sono tante. Ho detto della “mente signorile”: la frustrazione dei giovani, il “subconscio successorio”, che produce disoccupazione volontaria e NEET, il doppio legame, la condizione di doppiezza psicologica in cui si trovano, nella stessa famiglia, coloro che producono reddito e coloro che accedono al consumo di surplus senza produrlo. Esiste inoltre una vasta “infrastruttura paraschiavistica”, l’insieme dei lavori più umili, svolti in condizioni addirittura servili per lo più da immigrati dell’Est Europa, dell’Africa e, in generale, di paesi meno ricchi del nostro, un problema che tocca quasi 3 milioni di persone tra colf, badanti, braccianti, stagionali, prostitute, lavoratori in nero nell’edilizia, addetti alle consegne. Una società signorile di massa non è dunque una società in cui tutti sono ricchi, in cui la povertà è stata sconfitta. Si avvicina piuttosto al modello di “società dei due terzi”, un classico della sociologia, in cui una maggioranza benestante convive con una minoranza assai meno fortunata, se non in miseria.
Non dimentichiamo, poi, il divario Nord-Sud, che risulta essersi accentuato negli ultimi anni. Scrive Ricolfi che l’Italia «è sì una società signorile di massa, ma lo è in quanto le sue due metà si sono, in un certo senso, suddivise il lavoro della transizione, divenendo ciascuna sempre più quello che era in nuce: una società opulenta ma ancora operosa il Nord, una società non ancora pienamente opulenta ma già inoperosa il Sud». In un quadro del genere, il vittimismo è la ciliegina sulla torta. Siamo, in definitiva, «un paese che non studia, non legge e gioca». E la colpa non è tutta della cattiva politica.
Quanto potrà durare? Forse poco, forse molto. Galleggiare, trovare il punto di equilibrio tra la crescita zero e le trasformazioni vorticose della società: in linea teorica è possibile, per quanto folle. Occorrerebbe sforzarsi di produrre sempre di più, e sempre meglio, per essere in grado di finanziare il debito pubblico sui mercati internazionali e tenere il passo degli altri paesi. «È come affannarci su un tapis roulant che scorre in senso contrario: la nostra corsa (per diventare più efficienti) serve solo a non farci andare indietro (nel tenore di vita)». Insomma, correre per rimanere fermi, con il rischio di inciampare o sfiancarsi, e trasformare la stagnazione in decrescita. Nel caso dell’Italia, ci sono una serie di problemi che rendono questo scenario, secondo Ricolfi, assai probabile in assenza di correzioni. Due, in particolare: l’elevatissimo debito pubblico e la scarsa produttività del lavoro (ferma da vent’anni), conseguenza dell’ipernormazione, il proliferare di leggi, regolamenti, norme, enti, insomma l’eccesso di burocrazia (cui ha contribuito anche la “devolution all’italiana”, culminata nel 2001 con la riforma del titolo V della Costituzione).
Da circa mezzo secolo viviamo al disopra delle nostre possibilità, alla lunga i nodi verranno al pettine. Occorre rimboccarsi le maniche prima che ciò accada, invertendo soprattutto una certa rappresentazione, spesso autocompiaciuta, che diamo di noi stessi, il vittimismo di cui scrivevo prima. Non è una consolazione la previsione, avanzata da alcuni studiosi, di un futuro dominato dai robot, in cui l’uomo si asterrà dal lavoro. In questa prospettiva, l’Italia sarebbe un laboratorio all’avanguardia. Il punto è che non tutti i lavori sembrano facilmente automatizzabili. Inoltre, il trend dell’occupazione nei paesi avanzati non è in diminuzione ma in aumento. Nei paesi ricchi, inoltre, si lavora di più che nei paesi meno ricchi. La prosperità, insomma, non è il contrario del lavoro.
Si tratta, dunque, di adoperarsi urgentemente per evitare il declino materiale del nostro paese, ma una riflessione più ampia sul capitalismo, sui limiti dello sviluppo, sulla sua sostenibilità, è ineludibile. Perché se è vero che è da irresponsabili, anzi folle, produrre per non crescere, anche la crescita come valore che tutto subordina a sé è nient’affatto razionale e genera conseguenze non raccomandabili. Il saggio di Ricolfi non si spinge fino a questo punto, ma l’anomala condizione italiana che illustra in modo assai preciso fornisce più di uno spunto per questo genere d’interrogazioni.
Iscrivendoti, autorizzi il trattamento dei dati personali secondo quanto stabilito nella privacy policy