Iscrivendoti, autorizzi il trattamento dei dati personali secondo quanto stabilito nella privacy policy
Dio benedica Charlie Kaufman e i film palinsesto come Sto pensando di finirla qui. Non fosse stato per l’ultima pellicola del genialoide Charlie non avrei mai scoperto Ghiaccio di Anna Kavan. Kavan è la più grande scrittrice di cui non avete mai sentito parlare, nipotina di Kafka, cuginetta di Ballard, sorella di Robbe-Grillet, emula fuori tempo massimo di Virginia Woolf, la zia matta a cui ripensi quando canti le canzoni dei Joy Division o di John Foxx. Nata Helen Emily Woods nel 1901, sposò un ex amante di sua madre, tale Donald Ferguson. Si trasferì con lui in Birmania, fece un figlio, mollò tutto per tornare in Inghilterra. Iniziò a dipingere, viaggiò molto, scoprì l’eroina, sposò l’artista Stuart Edmonds, divorziò ancora, tentò il suicidio un paio di volte. Infine, nel 1968, morì di overdose. Fino agli anni ‘30 pubblicò svariati romanzi di taglio realistico-autobiografico come Helen Ferguson. A partire da Asylum piece (1940), una raccolta di racconti ispirata dai frequenti ricoveri in manicomio, assunse il nome di uno dei personaggi delle opere precedenti e mutò radicalmente lo stile di scrittura. Con Anna Kavan siamo nel metalettario, nel solipsistico, nell’onirico. Logico che Kaufman abbia trasformato Ghiaccio in un indizio del puzzle di I’m thinking of ending things. Con un po’ di fantasia, il film potrebbe essere persino considerato un liberissimo adattamento del libro, una cosa a metà tra la parafrasi e la riscrittura.
La prima edizione del romanzo risale al 1967. Passato inosservato, Ghiaccio è stato riscoperto di recente, grazie a una ristampa della Penguin con prefazione di Jonathan Lethem. In Italia torna in libreria per la meritevole 451. La trama: un uomo, un eroe di guerra, un esploratore, non è chiaro, torna da un viaggio e si mette sulle tracce di una ragazza che un tempo ha amato, da cui è attratto, meglio: ossessionato. Va a trovarla, ma scopre che non c’è, è fuggita dal marito. La cerca in lungo e in largo, la trova e quella puntualmente scappa. Il mondo, nel frattempo, precipita nel caos. Immense pareti di ghiaccio assediano le città, l’inverno perenne scatenato da un ordigno nucleare che ha prodotto alterazioni ai poli minaccia la vita sulla Terra. La ragazza è ospite-prigioniera-amante di un uomo cinico e spietato, un Governatore dagli occhi – ça va sans dire – di ghiaccio in cui il protagonista e voce narrante, anche lui innominato, crede di riconoscere se stesso. La ragazza, per tutto il tempo the girl come la protagonista di Sto pensando di finirla qui, è una bellezza albina, i lunghi capelli di un bianco scintillante, la pelle candida, fragile. I due uomini la tiranneggiano. Il narratore è un sadico e un folle. Soffre di emicranie, prende medicine, scivola continuamente in sogni a occhi aperti, visioni di morte, di guerra. È impossibile determinare con certezza se esista davvero un mondo fuori o se tutto non sia la proiezione di una mente torturata, infelice, prossima allo sconquasso.
Ghiaccio allinea con precisione una serie di quadri nebulosi e scarni, come in un’irreale mostra delle atrocità al cospetto della quale si è più rapiti che repulsi. La struttura del romanzo è episodica. I personaggi non hanno nomi, non hanno volti, le città non si chiamano, la geopolitica è un riassunto grossolano, fumettistico, il paesaggio è rovina, annichilimento, distruzione. La scrittura di Kavan richiama la consistenza paradossale, l’ambiguità ialina di una lastra di ghiaccio. Una cosa certa, indubitabile, solida, geometrica, eppure fatta del materiale più sfuggente, che non svela e non riflette, semmai deforma tutto in un biancore accecante.
Ispirato dal soggiorno di Kavan in Nuova Zelanda e dai vicini paesaggi dell’Antartide, il romanzo può essere letto come una distopia proto-ambientalista, una metafora della dipendenza, una denuncia dell’abuso e della coercizione maschile, una favola perversa. Nonostante sia sempre un’operazione rischiosa derivare il significato di un’opera dalla biografia dell’autore, è possibile vedere nell’attaccamento patologico del protagonista alla ragazza, nel torpore emotivo dei personaggi, persino nel biancore del paesaggio l’allusione al gelido oblio della droga da cui Kavan fu sempre dipendente, malgrado i molteplici ricoveri e le cure di eminenti psicoanalisti (Karl Theodor Bluth, Ludwig Binswanger). L’esperienza di vita di Kavan si riflette nel personaggio della ragazza, vittima dell’abuso materno (così la descrive il protagonista) e inevitabile terreno di conquista del sadismo maschile, la stessa forza sconclusionata e mostruosa che ha ridotto la Terra a un atomo congelato. È Kavan a suggerire il parallelismo. Nelle descrizioni del protagonista, il corpo della ragazza sfuma nel paesaggio. Leggendo Ghiaccio si può essere d’accordo con l’analisi del femminismo radicale di Lonzi o Solanas. Il mondo delle corporation, degli arsenali nucleari, della “logica della conquista del potere” è un mondo maschile. In Ghiaccio il maschile è paternalismo, possesso e distruzione mascherati da cura, protezione. In una parola: totalitarismo. Il corpo della ragazza è colonizzato dalle forze del desiderio e dell’immaginario (“il volto terreo, inespressivo come un foglio bianco”). Ma la narrazione incoerente e inaffidabile del protagonista, ancorché prodiga di parole, sottolinea paradossalmente il nucleo inafferrabile, l’essenza spettrale della ragazza, la quale viene riscritta e rimodellata infinite volte, reificata da questa impotenza che si rivelerà, alla fine, suicida.
Ghiaccio è puro slipstream, una terra narrativa di frontiera, un crocevia tra fantascientifico e surreale, weird and eerie, un labirinto di specchi kafkiano, un’allucinazione tra Ballard e il Noveau roman di Robbe-Grillet. In alcuni passaggi riecheggia persino l’Hitchcock de La donna che visse due volte, con cui il libro di Kavan condivide, prima che il tema della follia, quello della misoginia, della violenza degli archetipi di genere che opera per tramite dello sguardo maschile. In Vertigo Kim Novak revenant accetta di sottoporsi all’estenuante trasformazione orchestrata dal feticista James Stewart. Di Kaufman abbiamo già detto. Resta Nolan, il più slipstream tra i registi di Hollywood. Il narratore inaffidabile e psicotico di Kavan è parente stretto dei protagonisti di Memento, Inception, The prestige, Tenet, individui intrappolati in un mondo in cui è caduto il confine tra verità e bugia, sogno e veglia, realtà e allucinazione. Il cinema di Nolan ha una forte componente metafisica, il lavoro di contrazione-allungamento-sfilacciamento dell’esperienza spazio-temporale rimanda a un altrove onirico, un dentro-fuori in cui però nessuna verità ultima è rintracciabile. L’apice della stilizzazione nolaniana è Tenet, film che condivide con Ghiaccio la costruzione ellittica per quadri di stringata essenzialità, la paranoia, l’approccio metanarrativo, il giudizio critico sull’Antropocene. In Tenet, però, il tema della colpa è più pressante e declinato secondo la moderna sensibilità wokeista e ambientalista radicale. La redenzione è impossibile, non c’è espiazione all’infuori della distruzione del genere umano. Il che ci riporta a Kafka. In Kafka, la colpa è una condizione esistenziale, un destino al quale non solo è impossibile ma addirittura insensato ribellarsi. Quello di Nolan è un cinema di supereroi (superuomini). Ergo, se non è possibile vincere, l’eterna lotta tra Bene e Male può almeno finire in pareggio. Ghiaccio fu definito dal suo primo editore un incrocio tra Kafka e The Avengers.
Il protagonista del romanzo è l’Ultimo Uomo, il testimone a cui è concesso di assistere al momento decisivo, l’attimo prima di quando non ci saremo più. Esploratore della regione terminale, del confine tra la vita e la morte, nel finale del libro raggiunge un equilibrio, una purezza di intenzioni che non è dato sapere se non sia una forma superiore di pazzia. In ogni caso, il suo contegno si intona al paesaggio, è uno slancio formalmente perfetto ma senza gioia, senza emozione. L’unico vero conforto che gli resta, più che il tepore dell’abitacolo dell’auto o la testa della ragazza sulla sua spalla mentre guida a folle velocità in un mondo in cui la vita è prossima alla mineralizzazione, è il calcio di una pistola. Il maschile può solo distruggere. Caduta la scusa dell’amore, la donna incarna la pulsione di morte con la quale, nell’imminenza del tracollo, è possibile, persino piacevole, ricongiungersi.
Iscrivendoti, autorizzi il trattamento dei dati personali secondo quanto stabilito nella privacy policy